Avrei desiderato manomettere, sostituendoli
naturalmente, tutti i cartellini esplicativi di una ideale mostra di Carlo Levi
in Matera, città adottiva dell’artista arcinoto non so se più in ambito
letterario o propriamente artistico pittorico, magari proprio quest’anno ad un
secolo dalla nascita.
Avrei anelato contemplare in tale esposizione
quelle opere seguite al suo confino in Lucania notificatogli nel luglio del ’35.
Avrei inoltre voluto mettere da parte tutti gli
sciropposi cataloghi che inutilmente si sono affannati negli anni di restituire
con le parole le magiche atmosfere tutte lucane di quelle tele. Tutto questo
sicuro di aver trovato combacianti ed inappellabili commenti a quelle tele e a
quella realtà, partendo peraltro dalla penna di uno scrittore risucchiato con
le sue novelle e con i suoi romanzi dalla lontananza della sua esistenza, dove
le contingenze della vita un giorno lo relegarono.
Le sue espressioni non si possono, non si
devono dimenticare essendone l’autore, MARINO LEOGRANDE, irriducibilmente
un lucano. Dopo aver letto e riletto i suoi superstiti scritti, si rimane
inevitabilmente invischiati nelle spire dei suoi vocaboli, nella sintassi di una
precisione imbarazzante, nelle ricostruzioni geometriche ed ineffabili dei suoi
pensieri tradotti in frasi, nel puntuale ritratto dei luoghi della sua
solitaria, quasi segreta esperienza di vita, almeno quella di fanciullo e
adolescente, ancora scevra della consapevolezza di essere investita, un giorno,
dal destino comune dei lucani: “miseria ed emigrazione”. Un’attività creativa
capace di risultati tanto felici quanto imprevedibili, che germoglia sui
ricordi, quelli della giovinezza in Miglionico dove, in Piazza Purgatorio
32, oggi Piazza Mercato 15, nasceva, il 23 marzo 1902 da
Antonio e da Elisabetta Mazzilli, secondogenito di quattro figli. La
sua unica sorella, Margherita, nacque pochi anni prima in Napoli dove il
padre esercitava in Rione Chiaia la professione di orefice, un fratello
Maurizio morì ventottenne in Milano già giovane magistrato e un altro
germano, Enrico, accidentalmente decedette sotto i bombardamenti di
Napoli: “Poi fu la volta di Maurizio: la più insensata, la più disumana, la più
crudele…Infine fu la volta di Enrico. Anch’egli si spense come Maurizio, solo
come l’altro, tra ignoti, lontano dalle cose care.” da: “In
Lucania muore un cane”, Milano 1953. Qualcosa di misterioso faceva
pronosticare, una volta trasferitasi la famiglia in Miglionico, dove abitava un
fratello del padre, che quest’ultimo partito alla volta dell’America non avrebbe
dato più notizie di sè.
La Basilicata era ancora quella delle
masserie coloniche e delle famiglie patriarcali, dell’On.le De Ruggieri di
Miglionico e di Francesco Saverio Nitti, della visita di Zanardelli e dei vecchi
abituri nobiliari blasonati sul portale d’accesso, che ancora non avevano subito
il forte peso delle manomissioni post sismiche che ne avrebbero
irrimediabilmente alterato, compromettendolo, il volto storico. L’atmosfera di
quegli anni è rintracciabile solamente in pellicole come i Basilischi, primo
fortunato lavoro della Wertmuller e nei romanzi di Sciascia per il modello
societario, senza considerare per un momento le aure sinisgalliane; per la
scrittura, ricorrerei al paragone con il critico d’arte Roberto Longhi, per la
misurata e tagliente capacità descrittiva.
Un puntuale ritratto di quei costumi, di
quella sua terra, che molto, permettetemi, gradirebbe il maestro Dr. Mario Trufelli, sempre pronto ad incoraggiarmi, nei
nostri incontri, a ricordare e a
scrivere, ritorna in questo stralcio, di quelli da non tralasciare, tratto dal
romanzo del Marino “Cristo
non si è fermato ad Eboli” edito nel 1954 :”Che cosa vuoi
essere in questi paesi rosicchiati da piccole caste, gelose l’una dell’altra;
debilitati da piccoli mondi vuoti d’ogni pensiero e significato; che cosa vuoi
essere nella vita quando non sai come evadere da questi sassi, da queste case,
da questi campi; come fuggire dal cerchio chiuso, dal penitenziario invalicabile
di queste montagne; non sai come e dove iniziare il lancio dal trampolino sul
mondo; come uscire da questi paesi dove, pur avendo una laurea in tasca e un
cervello grosso così, sei niente, sei nessuno, sei nulla, isolato incompreso
avversato, da solo, e tutto quello che ti resta da fare, se hai fortuna, è di
finire in un ufficio graveolento di polizia o volontario alle armi, nel migliore
dei casi impiegato dello Stato, emigrante, eternamente emigrante, emigrato nella
tua patria stessa, peggio di quelli che valicano l’oceano e si trapiantano in
altri continenti ma che, se non altro, a furia di umiliazioni, di mestieri
patiti, d’ingoiare torsoli e bucce, qualche lira riescono a racimolarla..”.
Come cancellare questi versi dalla realtà,
dal “dramma inesploso” delle generazioni passate e future, vecchie e nuove! Tutt’intorno: “La pace cosmica delle montagne, delle vallate sterminate, dei
torrenti asciutti, delle arse crete lunari, delle lontananze spaziali…”. Quelle
identità erano ancora lontane dai mutamenti, vive e palpitanti sino a qualche
decennio fa; quella poesia, quelle esposizioni dettagliate erano ancorate in
questa nostra terra, contraddistinguendola con il fascino di un volto
inesplicabile, lontana dal tempo e da tutto il resto: “Ritagli di verde
scintillante, su per le coste, in tanto biancore allucinato, suscitavano l’idea
di una campagna rattoppata…Tutto appariva, quindi, maestosamente lento, come in
una cinematografia a passo ridotto, pur celando una forza inconsapevole. Di qui
l’ombra di malinconia, di tristezza, che avvolge la Lucania”…”…il nitrito bianco
di un cavallo si perdeva giù per gli infiniti tratturi menanti al Basento;
l’odore dei fichi bianchi, cotti al sole, condiva l’aria;…Nelle sere estive,
allorché sulla terra tutto si tingeva dei colori infocati del tramonto, io mi
sentivo il petto invaso da un’angoscia confusa di cui non riuscivo ad afferrare
il senso…Vivevo così i miei giorni migliori, i miei veri giorni-e furono gli
unici di tutta una vita…”.
Era già nella Milano che lavora, Leogrande,
quando metteva mano a questi frammenti, collaboratore di grosse testate
giornalistiche, dove faceva confluire storie note e meno note della sua realtà
originaria.
Già nel 1928 pubblicava il primo libro di
novelle dal titolo “Il
mendicante di luce” cui seguì, l’anno dopo, “Persiane
Chiuse” e poi “Osteria
di lusso”,
“Muore
un cane”, “L’avventura
dei vivi”; era già nella metropoli, aggrappato ai suoi sogni . Il
taglio arrivò presto, si delineò appieno il senso dell’emigrazione, ancor troppo
giovane lasciò difatti Miglionico, sua madre, sua sorella, nella mai spenta
speranza di ritornare e ritornò…”L’estate del 1943, a causa degli eventi bellici
che precipitavano in Sicilia, giunsi in un paese dell’Italia meridionale, il
mio, messo li a cuocere come una torta bianca sul cocuzzolo piatto e avvampato
d’un monte squallido. Da dieci anni non vedevo più la mia mamma, vedova e
sola…non ero riuscito mai a staccarla dalla sua terra bisbigliante insetti e
pampini ne a smuoverla dalla vecchia casa appoggiata allo sconvolto olivo
saraceno, attonita sotto il sole…partii con la volontà ferma di portarla via ad
ogni costo…la vidi sulla soglia della nostra casa…e il mio cuore ebbe uno
strappo. Esile e pallida, il capo bianco eretto sull’abito nero, nobilissima.
Girellavo, a caso, per le strade del paese, disseppellendo dai ricordi
rinsecchiti della mia prima giovinezza”.
Questi ultimi richiami mnemonici tratti
dalle novelle del volume “Terramatta”
del ’49, rivelano il senso di un’esistenza non vissuta se non nella rievocazione
di quegli anni e sulla propensione, compagna di una vita, a rientrare: “di nuovo
tra questi pochi metri di terra, come in una bara di verde, col coperchio
azzurro di cielo, a chiudere gli occhi, perché solamente qui, la prima, l’ultima
volta, ritroverà la sua luce, la vera luce; la mistica serenità che inutilmente
affannosamente cercò altrove; i suoi avi, la sua gente, la sua terra, la sua
chiesa, il suo camposanto, gli uomini pazzi sognatori come lui, gli individui
eternamente vagabondi come lui…” (da:
Cristo non si è fermato ad
Eboli).
I giudizi di svariati quotidiani sulla sua
opera letteraria sono rintracciabili, come adunati in un florilegio, nel suo
romanzo dal titolo “I
morti hanno paura” edito
nel ’56; questi alcuni: “Nelle pagine di Leogrande la prosa diventa lirica, diventa poesia, specie quando rievoca la sua
mitica terra di sogno, la Lucania, in cui ogni desiderio e ogni brama si
acquietano, lasciando l’uomo nudo di fronte ai grandi problemi dell’essere e
dell’universo” da “Il Giornalismo” Milano; “..se Leogrande nel “Libro
delle Donne Ignote” era un dipintore fantasioso e attento, qui è
anche pensatore, è un filosofo strano che cerca la vita attraverso la
parabola..” da “L’avvenire d’Italia” Bologna; “Descrizioni limpide, a periodi
ben martellati. Il Verga, per esempio, spesso ha un periodare contorto e
asintattico, ha creato personaggi vivi, è un grande artista. Ma Leogrande
possiede appieno grammatica, sintassi, lessico.” da “L’Unità” Genova; “E’
certamente un bel libro appassionato..” da “Gazzetta del Popolo “ Torino;
“..persiste ancora quel tocco di pennello straordinario nel dipingere uomini e
cose..” da “Il Tempo” Roma; “Tragedia dell’uomo superiore, stupefatto, che
indaga e vuol sapere, frugando nell’eternità” dal “Corriere del Giorno” Taranto.
Questo fu il Marino, una esistenza nata e spentasi nello stesso arco di tempo
del Levi, dal 1902 (Miglionico) al 1975 (Rapallo). Il 12 novembre del ’37
sposò Ugge Luigia nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, fece un’altra
famiglia, la prima l’affidò ai ricordi e ai versi, e poi le parole per quel
romanzo nato per contrapporsi: “Carlo Levi pubblicò un libro di grande successo:
Cristo si è fermato ad Eboli”, rievocante il suo soggiorno in Lucania, quale
confinato. Non v’è dubbio che trattasi di un lavoro eccellente ma la materia
spesso vi è alterata al punto tale che non poco risentimento ciò provocò, e
provoca tuttavia, in quella terra. In queste pagine non intendo confutare né
polemizzare. Cerco di rispecchiare più obiettivamente, forse con più amore, usi
costumi psiche storia tradizioni passioni del mio paese mitico generoso
ospitale, patria non solamente di emigranti ma di Grandi inimitabili: da Orazio
a Mario Pagano. Che poi io abbia fatto o meno opera d’arte, questo non so” (da:
“Cristo non si e’ fermato ad Eboli” op.
citata).
Al presente resta di quei giorni il suo
fondo in contrada Fontana di Noce con la vista sul Basento: “Dovunque sono
andato, ovunque andrò ancora, non ho trovato, non ritroverò la luce
intramontabile di queste montagne, lo scintillio dei nostri fiumi, il profumo
della nostra frutta e quello acutissimo e soave dei nostri fiori con il collo
teso all’azzurro del cielo…e così la focaccia umida di pomodoro che sembra ed è
sangue della nostra terra, l’abbacchio al forno, gli “gnommorelli” sapidi di
lauro e sale grosso; i pani lucidi, tondi”… Ed io, invitato nel febbraio scorso
da un’Associazione Culturale di Incontri Lucani per un convegno su Sinisgalli in
Milano, impossibilitato, pensavo nelle stesse ore del dibattito al lucano
Marino, ai suoi pensieri, alla sua esistenza, alla sua gente, a mio nonno
Ermanno, suo compagno di studi, all’Arciprete Gallucci suo
conoscente, alle Edizioni del “Don Chisciotte” da lui dirette e facevo mia ogni
sua parola “meditando che la vita non è chiasso e tumulto ma raccoglimento in
attesa del nulla” (Gabriele Scarcia)
|