Uomini e fatti di Miglionico

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Avv. FELICE VENTURA   (1880-1951)

GABRIELE SCARCIA

L'AVVOCATO GENTILUOMO SCELSE LE CAUSE CIVILI CONTRO LA PENA DI MORTE

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 16/11/2001

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Vidi scolpite nel marmo, un giorno non lontano, salendo al quinto piano del brutto edificio che ospita il Palazzo di Giustizia di Matera, parole che stridevano e mal si coniugavano alla freddezza della pietra che le porgeva al veloce sguardo dei passanti. Ben poca cosa, pensai poco prima, accingendomi alla lettura, se si aveva la pretesa che la vita e l'opera di un uomo potessero essere riassunte da poche lapidarie espressioni e da un bassorilievo con le fattezze espressive del volto.

Felice Ventura (Fotocopia Archivio storico-fotografico Gabriele Scarcia)Quella lapide suscita curiosità. Ma d'improvviso tutto suonò con un diverso accento e si mostrò con il suo vero volto, uscendo fortificato in tali strofe: "Per cinquant'anni - FELICE VENTURA - in serena povertà - prodigò - l'ingegno di acuto giurista - la fede di cristiano operatore - a difesa - degli umili e degli onesti - il foro - che si onorò del suo nome - ne volle scolpito qui il ricordo - per additarlo - a quanti vestono la toga - maestro di vita morale".Ciò mi toccava da vicino risultando inequivocabilmente quel cognome di Miglionico e mi permise di riconsiderare, d'un tratto, tutta la gloriosa tradizione giurisprudenziale, che vedeva, nel piccolo centro del Materano, l'epicentro più rigoglioso e la fucina più opulenta di talenti togati. Rividi, così, le candide facciole e le calze bianche splendere sulla triste figura del Procuratore del Principe  Sanseverino, Nicola Maria de Novellis di Miglionico, ben ritratto in una tela del 1675, come pure, nello studio dell'insigne penalista oriundo Niccolò de Ruggieri la pergamena di laurea in utroque jure del giureconsulto Domenico, che aveva strenuamente difeso il suo paese contro il feudatario Duca di Salandra.In tempi più recenti avevo conosciuto il magistrato Attilio Motta in Lecce, figlio del giudice Cataldo di Miglionico e padre dell'attuale Procuratore della Repubblica dott. Cataldo, nonchè il pm nei processi contro la "Sacra Corona Unita" dott. Pasquale Corleto, nipote del sindaco omonimo, avvocato anch'egli del medesimo centro lucano.

Ma chi era Felice Ventura? Ricerche capillari nelle biblioteche di tali illustri famiglie e di altre non da meno, rievocavano, nei volumi e nei documenti, una ferrea tradizione e un preponderante interesse per l'avvocatura eGiovanni Battista Emanuele Ventura (Archivio Storico-Fotografico Gabriele Scacia) da tali direttive non dovevano discostarsi troppo anche "le usanze" familiari dei Ventura. Era, infatti, anche il padre di don Felicetto, come fu in seguito appellato, brillante avvocato nel foro di Matera, dove si era trasferito con la moglie, Lucia De Nigris, per esercitare la pratica forense. Nato a Miglionico nel 1841 da Tommaso Antonio e Lucrezia Pellegrini, Giovanni Battista Emanuele, questo era il suo nome, ebbe da tale unione tre figli: Lucrezia nel 1872, Felice, appunto, il 29 settembre 1880 e Angela nel 1884.
Nulla faceva presagire che la tragedia si sarebbe abbattuta sulla famiglia Ventura nel tragico inverno del 1884, quando Angelina contava pochi giorni, Lucrezia era in Napoli per studiare e Felicetto, ancora attaccato alla gonnella materna, aveva compiuto da poco tre anni appena. La consolante speranza di guarire al clima del paese natale dal grave morbo che afflisse fino agli ultimi istanti di vita Giambattista, lo portò con Lucia, sua moglie, la piccolissima Angela e Felicetto, a raggiungere il borgo natìo e a riprendere dimora nella casa paterna, dove, dalla sua stanza che guardava il Castello, avrebbe visto consumarsi, giorno dopo giorno, la sua esistenza, sino al tragico 15 giugno dell'84, quando irrimediabilmente sopraggiunse la morte.
Persino i versi della poetessa Laura Battista, entrata nel novero della famiglia dopo l'unione con la De Nigris, omaggiarono da Tricarico il ricordo dell'estinto, tra  l'altro con queste battute: "Ti rammento delizia del Foro: - / Della terra nativa decoro, /Dei fratelli sostegno e splendor; / E, plaudendo ad esempio di addito: / Che il tuo dolce ricordo non muor!". Nè bastarono le personalità, gli amici e i congiunti, come il cugino Nicola D'Alema e lo zio canonico a colmare con le belle parole e le amare lacrime il vuoto che lasciò nei parenti più prossimi e nell'amatissimo figlio maschio Felicetto. Inoltre la famiglia versava in ristrettezze finanziarie per aver destinato grossa parte dei guadagni professionali all'occorrenza dei fratelli più giovani, essendo rimasti tutti in tenera età privati dell'affetto dei genitori. In tale stato di cose, Felicetto ebbe a ripetere spesso, nei giorni che seguirono la tragedia all'angustiata e abbattuta genitrice, denunciando già il suo signorile e nobile animo, tali parole: "Mamma, non piangere; mi farò grande e ti aiuterò io".

L'insegnamento paterno fu indelebile. E l'esempio paterno rimase indelebile nella sua memoria, nonchè i suoi insegnamenti religiosi; alla parrocchia di Santa Lucia era il primo a portare il cedro acceso dietro il Santissimo, partecipando attivamente alle funzioni religiose. Era solito, seguendo le inclinazioni naturali, da giovinetto, giocare a far l'avvocato e frequentare le "aule", ribadendo, una volta, al Giudice, che lo invitava ad uscire: "La legge è uguale per tutti". Dopo aver raggiunto brillantemente la licenza liceale al Liceo Duni di Matera, si indirizzò per il prosiego degli studi verso l'Ateneo di Napoli che, come ebbe a ricordare l'avv. Niccolò de Ruggieri di Miglionico in altra occasione:"Era il monte della Tessaglia delle scienze giuridiche: Emanuele Gianturco, Enrico Pessina, Carlo Fadda, Pasquale Fiore, Alberto Marchieri, ecc."
Ogni ritorno alla Sua Terra dovè rappresentare una gioia immensa per il ricongiungimento alla cara madre e agli affetti fraterni, ogni partenza una forte lacerazione per il suo giovane cuore; solo la caparbietà, la passione e l'incapacità di tradire  il sacrificio materno lo portarono ad indirizzare a costei, in occasione della laurea conseguita a luglio del quarto anno di studi, queste parole: "Laureatomi splendida  votazione rivolgo pensiero Santa memoria Padre. A voi ai vostri sacrifizi perenne gratitudine. Bacio tutti. Felice.", alle cui parole seguirono di risposta quelle altrettanti toccanti: "Carissimo figlio, fra le lacrime di commozione e tra le infinite benedizioni ho letto le belle parole fattemi arrivare telegraficamente. Benedetto sia sempre il Cielo il quale vegliò su di te e ti fu sempre benigno, benedicendo su di te i miei sacrifizi che ho già dimenticati".
Ciò che dovè essere l'inizio della sua carriera lo leggiamo in un giornale potentino del settembre 1903: "La Democrazia", nel ricordo di una causa penale mirabilmente condotta: "Non possiamo dispensarci dal rilevare la simpatia e la bella impressione che lasciò in tutti la parola stringente, dialettica, del giovane avv. Ventura, il quale appena da un anno esercita con vero successo la professione di avvocato penale, nella preclara e dotta Curia di Matera, ove sono tanti i valorosi. Il giovane Ventura è una pianta assai promettente di penalista distinto, e il Procuratore Generale nella sua requisitoria e il comm. Lichinchi nella sua arringa resero testimonianza del suo valore, augurando a lui uno splendido e meritato avvenire".
Per un vero cristiano quale egli era, dovè risultare incomprensibile la legge umana e non divina dell'introduzione della pena di morte per i reati più gravi, se a tale provvedimento seguì l'abbandono delle controversie penali a favore delle civili, nè valsero a dissuaderlo dal suo incontrovertibile proposito i suggerimenti dei suoi affezionati colleghi. "L'avvocatura non si improvvisa" ripeteva sovente; era per Lui ogni difesa penale frutto di un tormento interiore, di profondi studi e di tanto cuore e anima; dopo le fatiche di un'arringa minuziosa e carica di dialettica appassionata, si portava in una Chiesa a ringraziare il buon Dio del successo ottenuto. Nel frattempo tristi lutti funestavano ancora l'animo di Don Felice, ricordato anche in Miglionico con questo nome e consigliato caldamente a chi aveva bisogno di un "buon avvocato", come l'altrettanto noto penalista Niccolò de Ruggieri.

Era rispettato dagli avversari. Correva l'anno 1907 quando moriva l'avv. Enrico Schiavone suo cognato, marito della sorella Lucrezia. Racconta il senatore avv. Domenico Schiavone, uno dei nipoti orfani di Felicetto, che si ritrovava improvvisamente lo zio "a capo di un'altra famiglia: mia madre rimasta vedova a trentatrè anni e noi suoi nipoti. Nell'assistere alle ultime ore di mio padre era stato preso da un tic nervoso che lo scuoteva nel volto, tanto egli risentì quel terribile colpo. Si dedicò a noi e ci predilesse di infinito amore. L'anno seguente io chiusi il mio periodo di studi liceali e nel dicembre egli accompagnò mia madre con mia sorella ancora bambina e me a Roma, sede scelta per i miei studi universitari secondo le indicazioni avute da mio padre e curò la nostra prima sistemazione in questa città, ritornando, poi, di anno in anno, periodicamente a Capodanno e Pasqua, mentre noi ritornavamo nelle nostre vacanze estive a Matera".
Nel 1920 la drammatica perdita della madre gettava Don Felicetto in una prostrazione acuta dalla quale non si sarebbe mai ripreso completamente; il Canonico Luigi Loschiavo disse di lui, nella circostanza del luttuoso evento: "...E il rampollo educato con tanto intelletto d'amore è oggi rovere robusto e alto per virtù e ingegno, perchè - giova qui gridarlo come monito a tutte le madri - l'avv. Felice Ventura è quell'integerrimo cittadino a cui ogni terra andrebbe orgogliosa d'aver dato i natali e per il quale anche gli avversari hanno leale e profondo rispetto, tanta è in lui la innocenza della vita e tanto egli ha a cuore il culto per le nobili idealità".Altre parole che ricordano la sua vita privata si registrano nelle memorie della sorella Lucrezia:"Sono stata sempre amata da Felicetto e gli sono gratissima per l'affettuosità con cui mi ha curata. Che Mimì e Titino e anche i nipotini abbiano per lui affetto e venerazione. Egli si è sacrificato per la sorella e per la mamma e per la sua onestà portata fino allo scrupolo è rispettato da tutti. Iddio lo benedica e gli allunghi la vita".
Non sono questi i tratti più decisivi che contornano la sua figura; per la sua vita pubblica scrive il cav. Pietro Tantalo collaboratore nel suo studio: "Alla vigilia dei dibattimenti penali non sollecitava mai il cliente o i clienti a versare, come di consuetudine, 'l'onorario o l'anticipo e, se questi non ne faceva cenno, li lasciava indisturbati e non permetteva che altri dello studio se ne interessassero. Accadeva spesso che molti clienti assicurassero di curare il versamento dell'onorario appena fossero giunto a "paese", ma, una volta rientrati in sede, non se ne ricordavano più. Nonostante ciò, nessuno di questi ha mai ricevuto una lettera d'invito al pagamento o una sollecitazione verbale o scritta".
Un altro giovane del suo studio, Pasquale Giannuzzi, ricorda: "Una volta difese per l'accusa di un furto un poveraccio che fu assolto. Dopo l'udienza il cliente si presentò a casa per dirgli: "Devo rubare un'altra volta, perchè non ho soldi per prendere la corriera". E Don Felicetto gli diede il denaro occorrente".
Intanto nel '42 la morte del nipote e di seguito quello della sorella Lucrezia minarono ancor più decisamente la sua macera esistenza; schivo com'era di frequentare la buona società e rifuggendo alla mondanità, viveva appartato, lavorando incessantemente, parlava poco dei suoi sacrifici, della malvagità umana, delle sue faticose cause (24 nel 1902, 111 nel 1904, 105 nel 1905, 109 nel 1906, 141 nel 1907, 167 nel 1908, 97 nel 1909, 120 nel 1910 e così via).

Poi arrivarono gli americani.Ricorda un un altro suo collaboratore, Rosario Dottorini, che, uscendo dal Tribunale, ultimo anche dopo i cancellieri, si toglieva il cappello un centinaio di volte perFunerali Felice Ventura, Matera marzo 1951 (Fotocopia Archivio storico-fotografico Gabriele Scarcia) salutare quanti lo stimavano; "Don Felicetto ossequia pure il suo cliente" diceva l'avv. Giordano. Era egli stesso a consigliare i suoi clienti di evitare le azioni giudiziarie in favore delle soluzioni pacifiche, contro anche il suo stesso interesse. All'arrivo degli alleati a Matera, il procuratore del Re fu allontanato; l'avv.Milillo, interrogato su chi lo potesse sostituire, designò un Giudice dello stesso Tribunale e, resasi vacante anche la poltrona di Magistrato, fece il nome di Don Felicetto; ricorda il sen. avv. Vincenzo Milillo (che dettò le parole per la lapide commemorativa): "Un agente fu immediatamente spedito a chiamarlo. - Vi vogliono gli americani - disse questi a Don Felicetto nel presentarglisi. Ne nacque lì un gran putiferio per il gran spavento in famiglia, perchè i tempi erano difficili, tanto che Don Felicetto si licenziò emozionato dalla sorella, raccomandandole di mandare a chiamarmi. Ma io che avevo indovinato quanto stava accadendo lo rassicurai che non si trattava di arresto. Della notizia della assunzione alle funzioni di Giudice Don Felicetto fu contento. Diventava così il Magistrato e lo fu per qualche anno". Intanto occupò altre cariche come quella di presidente della Commissione Provinciale delle Imposte, presidente del Comitato Provinciale dell'Opera Nazione per gli Orfani di Guerra, componente del Consiglio Provinciale Sanitario, componente della Giunta Provinciale Amministrativa, della Congregazione di Carità, del Comitato Provinciale delle Scuole, ecc. Al termine della sua funzione di Magistrato, il Presidente del Tribunale di Matera gli indirizzava tali parole: "...Verrei meno ad un mio preciso dovere se, con l'occasione, non Le esternassi i miei ringraziamenti più vivi per la collaborazione da Lei appassionatamente prestata per oltre un anno nella amministrazione della giustizia con la rara competenza, acquistata nell'esercizio della professione forense per un quarantennio, con grande zelo, con somma rettitudine, con scrupolo tormentoso, sì da potersi dire che Ella si è dimostrato magistrato perfetto e completo". Gli ultimi anni di vita furono i  più tormentati; quando le forze non gli consentivano di attendere al lavoro, se ne doleva amaramente. Nel marzo del 1951 ebbero fine, in Matera, le sue sofferenze; grande fu il cordoglio e lo strascico di gente che affollò il funerale; "la toga immacolata fu deposta nella Sua bara come vessillo vittorioso"; tantissimi i telegrammi pervenuti ai familiari, da magistrati, ecclesiastici, deputati.

I galantuomini muoiono poveri. "L'avvocato galantuomo deve morire povero"diceva. E così fu:"Io ho quel che ho donato". Le parole che rimarranno ferme nella nostra memoria sono quelle di quanti hanno avuto il privilegio di conoscerlo; affido a quest'ultima testimonianza l'ultimo ritratto della sua profonda personalità che neanche la morte cancellò: "Una sera ero solo in Santa Lucia - racconta mons. Vito Staffieri, rettore di quella parrocchia - Durante la recita dell'ufficio liturgico, stando genuflesso dinanzi all'altare del tabernacolo, che trovasi nel presbiterio, avvertivo insistentemente la presenza invisibile del compianto avvocato Felice Ventura, mio intimo amico e oracolo, che era deceduto da tre giorni. La visione del suo spirito, a contatto con il mio, ebbe la durata di circa un'ora, ossia durante la recita dell'Ufficio e continuando fino alla mia abitazione, a Castelvecchio, nel mio uscir di chiesa. Ebbi l'impressione che l'anima eletta dell'Amico mi rendesse gratitudine per aver pregato, anche in suo nome, dinanzi a Dio della terra dei cieli, col tenermi compagnia fino al mio tempietto di abitazione. "Beati mortui qui in Domine moniuntur".                                                                                                                  


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