Tradizione (dialetto,
proverbi, giochi, mestieri, festa patronale, ecc.) |
I
MESTIERI ANTICHI |
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CALDERAIO |
Era prezioso il
mestiere del calderaio (lu cuallaral'): realizzava oggetti indispensabili alla vita
quotidiana: la callar', una pentola di varie dimensioni in rame
stagnato che serviva per lessare la pasta; la sartasc'n'
che serviva per friggere, ecc.
Era cura del calderaio ricoprire internamente i recipienti di rame con
uno strato di stagno per evitare che si ossidassero, rendendo tossiche
le pietanze (l'operazione si ripeteva ogni qual volta lo stagno si
consumava).
Tutti questi oggetti facevano parte del corredo domestico e si
appendevano ai chiodi di un telaio rettangolare di tavola appeso alla
parete.
Oggi, i vecchi recipienti, stati sostituiti dalle pentole di acciaio
inossidabile o di pirex; ricercati come pezzi di antiquariato in una
società che ripropone un ritorno all'antico e al rustico.
L' quallaral' non ci sono più. Matera, il nostro capoluogo
di provincia, li ricorda con una bellissima statua di bronzo,
opera dello scultore locale Nicola Morelli. |
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FORNACIAIO |
Gli oggetti che
anticamente venivano usati in cucina erano prodotti artigianalmente dai fornaciai, specialmente quelli
che operavano a Grottole e a Matera. La
materia prima utilizzata era l'argilla che, in zolle, veniva cavata dai
calanchi o dai bacini lacustri delle nostre zone. La creta veniva
lavorata e impastata pestandola con i piedi, compito affidato a ragazzi
che venivano chiamati "pestacreta". Nelle fornaci si
producevano mattoni, tegole per l'edilizia, cuch'm e zol' che si
vendevano specialmente durante le fiere. Il vasaio portava il forno a
temperatura elevata e per ricavare la terracotta , come combustibile
usava la paglia di lino o fascine di rami di ulivo. Nei forni i mattoni
si facevano cuocere per 24 ore e poi si sfornavano ed erano fatti
raffreddare poggiati per terra. Un mattone di dimensioni di centimetri
20x30 costava circa 20 centesimi. Nelle fornaci, oltre ai mattoni, si
fabbricavano anche i piatti e le pentole di terracotta. I piatti erano
di dimensioni diverse ;solitamente nelle case si usava un unico piatto,
la spas' in cui mangiava tutta la famiglia. La carne, i legumi,
l'insalata, il lievito e la "cialledda" venivano riposti nel uar'vuattiedd'.
Gli oggetti per contenere i liquidi erano: lu cuch'm', per
l'acqua in terracotta beige, con la bocca stretta e due anse simmetriche
sotto il collo ; la z'ledd', una brocchetta di terracotta
verniciata, con la bocca che si restringeva a triangolo e con il collo
largo; la zol', a forma di brocca con il collo dritto a cui
erano attaccate due anse, che serviva per attingere l'acqua dalla
fontana. Per arrotondare la misera paga, gli apprendisti, e non
solo, modellavano i "cucù", una specie di fischietto,
delle piccole sculture che raffiguravano pupe e gallinelle, uomini della
legge, cesti di fiori o strane creature originate dalla fantasia dell'artista.
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MUEST' D'ASC' |
Il maestro d'ascia
costruiva botti, barili, produceva arcolai e conocchie, costruiva e
riparava traini, perfezionava la forma delle ruote per infilarvi il
cerchio di ferro. Lo scultore e scrittore Nicola Morelli, nel suo libro
intitolato " Storie di Cheravanna ", così descrive le varie
fasi della ferratura delle ruote eseguite da un maestro d'ascia. "E
chi potrà mai dimenticare la scena magica della ferratura delle ruote?
La grande ruota veniva montata inserendo nel mozzo, un vero capolavoro
di ebanisteria, i raggi a due a due, già bloccati nel corrispondente
arco del cerchione di legno; venivano poi forzati controllando bene che
il cerchio fosse perfetto. Intanto, a parte, veniva scaldato il grande
anello di ferro che avrebbe rinserrato e bloccato definitivamente la
ruota nella morsa del suo grande cerchione. Questo, il grande cerchio di
ferro, posato per terra, veniva ricoperto in maniera uniforme da tanti
pezzetti di legno, tutti uguali, che venivano incendiati e che portavano
il ferro a temperatura di color bianco, provocandone la dilatazione.
Quando il cerchio era ben caldo e dilatato, veniva sovrapposto alla
ruota, forzato perché la abbracciasse correttamente e saldamente lungo
tutto il cerchione di legno, rapidamente raffreddato con docce d'acqua
che, riducendone la dilatazione, lo portavano a rinserrare quel grande
rosone di legno in maniera permanente e definitiva.
Uno spettacolo che ci teneva in silenziosa attenzione per tutto il
tempo." A Miglionico l'ultimo maestro d'ascia è stato P'ppin'
Ancon' (Giuseppe Ancona).
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MIETITORE |
Un lavoro molto importante nella vita del contadino era quello della
"mietitura" in cui venivano coinvolti tutti i
componenti della famiglia.
I lavori avevano inizio, generalmente, il 15 giugno, giorno di San
Vito, quando il paese si affollava di traini con i
quali si trasportavano fieno e covoni dai campi alle aie. Durante la
mietitura venivano a Miglionico braccianti forestieri, i mietitori,
(generalmente
dalla Marin', cioè dalla Puglie) i quali si fermavano in
piazza alla ricerca di un ingaggio. Lì passavano anche la
notte, dormendo per terra con la testa poggiata su un fazzoletto
colorato in cui mettevano pane, qualche indumento e i loro ditali di
canne che servivano a proteggere le dita durante il taglio degli
steli.
Alla mietitura seguiva il lavoro della trebbiatura: le spighe venivano
battute con delle pertiche, oppure si facevano girare i muli bendati
intorno alle aie al rumore della frusta o al ritmo dei canti del
contadino.
Le aie erano costituite da spazi di terra battuta. I muli battevano
gli zoccoli sulle spighe, guidati dal contadino che indossava un
cappello di paglia per ripararsi dal sole cocente.
Le donne e i ragazzi si alternavano con gli uomini nella guida dei
muli. Nel pomeriggio si svolgeva il lavoro della
"ventilazione", che consisteva nel separare il frutto dalla
paglia. Il grano, l'orzo e la biada venivano accumulati in sacchi di
tela e trasportati col traino a casa dove venivano versati in grandi
casse di legno (l' casciun'), con grande soddisfazione del
contadino.
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MANISCALCO |
Il maniscalco ( lu furruar')
era l'artigiano che ferrava muli e cavalli, attività molto importante
in un paese ad economia contadina contadina come Miglionico.
Egli, oltre a forgiare il ferro secondo la forma e la dimensione dello
zoccolo, svolgeva altre funzioni: assisteva al parto degli animali,
curava le ferite, "favoriva" la monta equina.
Si serviva di pochi ed elementari attrezzi: martello, tenaglia, incastro
che serviva a pareggiare l'unghia dello zoccolo, chiodi realizzati da
lui stesso.
Le prestazioni del maniscalco erano richieste in tutti i periodi
dell'anno, in particolare nel periodo della trebbiatura in quanto gli
animali dovevano essere ben preparati per il lavoro estenuante sull'aia.
Tra i maniscalchi ricordiamo: Pasquale, Peppino e Sabino Piccinni,
Nicola Tataranni, Albert' u furruar', M'ngucc(i)' u furruar', u Ruass'.
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FORNAIO |
Il fornaio (lu
furnuar'), il gestore del forno,
era addetto alla cottura del pane e spesso diventava anche un confidente
delle massaie, riuscendo a condividere le fatiche e gli affanni per
procurarsi il cibo.
A Miglionico vi erano quattro forni: uno al Torchiano, uno in piazza S.
Nicola, uno in Via Ettore Fieramosca e uno a S. Angelo.
La cottura del pane era preceduta da varie altre operazioni, scandite
dallo scorrere del tempo. Era ancora buio quando il garzone del fornaio,
facendo il giro dei vicinati, chiamava le massaie suonando una
trombetta, perché si
prenotassero per la cottura dei pani.
Le donne si affacciavano sull'uscio di casa e rispondevano mentre il
garzone, nella sua mente, faceva il conto dei pezzi di pane da
trasportare al forno.
In casa tutto era predisposto per impastare: il tavoliere, la farina,
l'acqua tiepida, il sale, la "rasola" e "lu uaruattied",
recipiente di creta contenente un pezzo dell'impasto precedente fatto
inacidire che fungeva da lievito. Intanto i rintocchi delle campane
annunciavano il far del giorno.
Preparato l'impasto, la massaia, dopo aver tracciato un segno di croce,
lo ricopriva perché "crescesse". Questi gesti erano
accompagnati da una preghiera rituale:
Crisc' mass'
crisch mass'
com cresc'
Crist' 'nda a fasc'.
(Cresci massa, cresci massa
come crebbe Gesù nelle fasce).
Intanto la massa lievitava e la donna, preparati i grossi pani, anche di
quattro chili ciascuno, aspettava il ritorno del garzone che li
trasportava al forno su una tavola di legno a spalla o con la trainedd'
(trainella).
Generalmente le donne seguivano il garzone al forno per assistere
personalmente all'infornata o ci mandavano una persona di fiducia: un
figlio, un parente un amico. Si veniva a creare così una folla di
donne, vecchi e bambini: ognuno ambiva a sistemare i propri pani al
centro del forno, dove il calore giungeva in maniera più uniforme e,
pur di conquistare quella posizione.
Dopo che i pani erano stati segnati con il timbro e infornati, la gente
si allontanava dal forno per rientrare a casa.
Quando il pane veniva sfornato, i vicinati erano invasi dal suo
fragrante profumo che allietava il cuore di tutti, ma soprattutto quello
del contadino che con l'asino tornava dalla campagna.
"Normalmente,
ogni settimana, la madre impastava (trumbuav') per preparare il pane per tutta
la famiglia. Mischiava lievito naturale (era un po' dell'impasto precedente,
quindi, ben fermentato) farina, acqua tiepida e sale (normalmente per una
famiglia di sei persone si impastavano 10 chili di farina) e iniziava la
lavorazione (trumbuav').
Era un compito
veramente molto stanchevole; il tutto assumeva la caratteristica di un vero
rito che coinvolgeva l'intera famiglia. Le figlie più grandi, alcune volte,
davano il cambio alla madre la quale poteva riposarsi qualche minuto, prima di
riprendere il suo lavoro. Dopo circa un'ora, la massa, ben coperta, veniva
fatta riposare, perchè lievitasse per altre due. Successivamente si
preparavano delle panelle di tre-quattro chili che venivano poste su di una
tavola (la tavola del pane) e avvolte in una tovaglia. Ad una certa ora
prestabilita il fornaio passava per le abitazioni delle famiglie che si erano
prenotate il giorno precedente, per portare il pane nel suo forno a legna.
Quando questi lo infornava, dopo aver bruciato moltissime "fascine"
secche per rendere bollente il forno, lo segnava con un marchio o le iniziali
del cliente, perchè, una volta cotto, non si confondesse con quello degli
altri. Dopo un paio d'ore, il pane, ormai cotto, veniva sfornato, riposto
sulle tavole e riportato, dallo stesso fornaio, ai legittimi proprietari. Era un pane dal sapore
insuperabile. Il suo profumo particolare lo acquisiva anche da quello delle
"frasche"bruciate. Aveva un sapore meraviglioso, anche se veniva
consumato da solo o col pomodoro, con l'olio, con lo zucchero, ecc. Generalmente, ogni
qualvolta si "trumbuav'", si preparavano nelle tortiere delle
focacce condite con pezzettini di pomodori, olio extravergine di olive, aglio
e basilico le quali venivano infornate prima del pane. Sono sapori passati e,
forse, perduti, come la nostra giovinezza!".
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LATTAIO |
Fino
agli anni cinquanta-sessanta non esistevano le latterie per cui
chi aveva la necessità di procurarsi del latte si recava, munito di
recipiente, personalmente alla stalla. C'è da dire che non tutti si
potevano permettere di acquistare quotidianamente il latte, che per
alcuni era un alimento "di lusso".
Diffusa era la figura del lattaio
ambulante, generalmente un contadino, un pastore che ogni mattina faceva
il suo giro rifornendo i clienti della quantità di latte richiesto: un
quinto o addirittura mezzo quinto, un quarto o mezzo litro.
Vivo è nel mio ricordo la figura di alcuni nostri compaesani che tutte
le mattine passavano per le case a rifornire le massaie del
latte appena munto.
Spesso il latte non sterilizzato era causa di gravi affezioni e malattie
come la febbre maltese.
Le donne più scrupolose e più informate lo facevano bollire a lungo
prima che venisse bevuto da grandi e bambini.
Dei vecchi lattai ambulanti oggi rimane solo il ricordo. I lattai che si
ricordano sono: Serafin' 'Nzurragghiat', Ch'lucc(j)' u' cruapar,
Giuvuann' Abbruc(j)'.
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LO
STRACCIARO |
Lo stracciaro era
un ambulante che raccoglieva stracci e pezze vecchie da trasformare in
nuovi filati nei laboratori di riciclaggio. In cambio di pezze
vecchie che infilava in voluminosi sacchi trasportati a spalla,
offriva forcine per capelli, palloncini, giocattoli di poco valore,
elastici, lacci per scarpe, bottoni, tutta merce preziosa in anni in
cui scarseggiavano negozi e soldi.
C'era anche chi ritirava i capelli che le donne, quando pettinavano le
loro lunghe chiome (a quei tempi si usavano i "tuppi"),
raccoglievano e conservavano scrupolosamente in un sacchetto o in una
vecchia calza oppure in una cavità della parete che poi veniva
nascosta con un mattone, per poi barattarli con qualche spilla o
anello, naturalmente di bigiotteria.
Questo oggi ci fa sorridere, ma ci dà anche l'esatta dimensione delle
dure condizioni di vita in cui versava gran parte della
popolazione nel primo cinquantennio del nostro secolo.
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CONZAPIATTI |
Capitava
spesso che pentole, recipienti e brocche essendo fragili, sottoposti
agli urti, si rompessero. In questo caso non venivano gettati via, come
accade oggi, ma riparati dal "conzapiatti", un artigiano
ambulante che per annunciare il suo arrivo in paese e consentire alle
massaie di approntare sull'uscio di casa le brocche da riparare, gridava
a squarciagola: "U cunzapiott, è arrivato u cunzapiott! U' 'mbr'llar'!".
Con un trapano rudimentale di legno ricuciva l'oggetto rotto: praticava
dei fori e univa i cocci con un filo di ferro, spalmandoci sopra uno
strato di cemento, restaurando così l'oggetto che riacquistava la sua
funzione.
Il tutto avveniva sotto l'occhio vigile delle massaie che cercavano di
evitare ogni spreco. Terminata la prestazione si passava al compenso
pattuito in precedenza che dipendeva dal numero dei fori eseguiti:
generalmente negli anni 30-40 il conzapiatti esigeva un soldo per ogni
foro (20 soldi corrispondevano a una lira). I tempi erano duri e non
sempre la gente aveva la possibilità di pagare, sebbene si trattasse di
pochi spiccioli. Alcune volte si era costretti a pagare in natura...
Terminata la prestazione il conzapiatti riprendeva il suo giro nelle vie
del paese, segnalando con vocalizzi la sua offerta che, il più delle
volte, consisteva anche nella riparazione degli ombrelli.
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SCETTACALLAR' |
Sino agli anni Cinquanta, molte abitazioni di Miglionico non erano
ancora fornite di bagni perciò venivano usati i carri-botte, guidati
dai scettacallar', che, soprattutto
in estate, erano contro ogni forma di igiene e di decenza. Le acque
luride venivano depositate nei pressi del cimitero. U scettacallar'
girava di notte o all'aba con il carro-botte raccogliendo gli
escrementi depositati nei "quandr".
Le donne, svegliate in piena notte dal suono della tromba che
annunciava l'arrivo del carro, si affrettavano a svuotare il
recipiente fetido, cercando di battere in velocità tutte le altre cui
era affidato questo sgradito compito.
Si comprende come in queste condizioni di vita fosse molto facile
contrarre malattie.
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MAMMAN' |
A Miglionico , normalmente, si partoriva in casa
con l'assistenza della mammana (la levatrice) che
cercava in tutti i modi di rispettare le norme igieniche, servendosi di
strumenti sterilizzati come era possibile farlo a quei tempi.
La mammana era assistita dalla suocera, dalla madre, da vicine di casa,
da comare, ecc.. Quando il parto presentava complicazioni e
bisognava scegliere tra la vita del bambino e quella della madre, i
parenti del marito miravano a salvare il bambino; per questo era
indispensabile la presenza della madre della partoriente che
proteggeva la figlia.
Alcuni bambini morivano durante il parto perché non sempre era
possibile assicurare loro un'assistenza adeguata.
Dopo il parto la madre restava a letto per qualche giorno per
favorire il ritorno dell'utero nella sua posizione fisiologica e
perchè potesse riacquistare tutte le forze necessarie per accudire in
modo adeguato il neonato. I familiari e gli amici della puerpera
facevano a gara a procurarle dei colombini con i quali si preparava un
ottimo brodo che ella doveva bere.
Frequenti erano le emorragie o le infezioni gravi come la febbre o
sepsi puerperale che causavano molti decessi, date le scarse
condizioni igieniche e gli impropri interventi sanitari. Le mammane
che si ricordano sono:
Filomena Contini, Donna Faustina (detta Muammanon'),
la Bolognes', la signora Maddalena Montalbano ved. Russo.
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CALZOLAIO |
In passato questo mestiere, anche se poco remunerativo, era assai
diffuso perché anche i benestanti usavano far ricucire o risuolare le
calzature.
Il calzolaio generalmente lavorava in un posto fisso, in un angolo
dell'abitazione, in un portone o in un angusto locale; durante la
bella stagione il banchetto del calzolaio veniva sistemato all'aperto,
spesso in un vicinato..
Era abitudine, per sfruttare al massimo le scarpe, far rinforzare le
suole con piccoli ferri o chiodi che producevano un particolare
tintinnio, al suono del quale si poteva intuire facilmente che le
scarpe erano nuove (ciò avveniva specialmente in prossimità delle
feste).
In genere ogni maestro calzolaio aveva due o più apprendisti che
sedevano con lui attorno "u banch'tiedd'", il deschetto.
Molto spesso i calzolai andavano a svolgere il loro lavoro
direttamente a casa di clienti che avevano una numerosa prole. Il
calzolaio rimaneva a casa del cliente per tutti i giorni necessari a
calzare tutti i componenti della famiglia. Era tutto un rito: la
misura del piede, la scelta della tomaia, la realizzazione delle
scarpe. Un ricordo particolare va ad un mio parente, zio di mio padre, Z' 'ngicch' (Francesco
Santomassimo), un uomo bravissimo, un
calzolaio eccezionale; a P'ppin'
Daggiegh' e N'col' a R'nd'nedd'.
I calzolai più abili, e lui era uno di questi, erano in grado di
realizzare scarpe su misura, secondo le richieste della
clientela e gli orientamenti della moda.
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TRAINIERE |
U trainier' era il conduttore del traino, un
mezzo di trasporto per merci, per prodotti agricoli ed anche per
persone. Veniva usato sia per brevi spostamenti, dal paese alla
campagna dove si svolgeva il lavoro agricolo, sia per spostamenti più
lunghi.
Alcuni contadini, quelli più benestanti, erano anche proprietari di
traini; altri invece per il trasporto delle merci erano costretti a
prenderlo in fitto.
Il legame che il padrone stabiliva con l'animale era molto saldo,
spesso improntato ad un sentimento di affetto: poteva succedere che il
carrettiere fosse più preoccupato della salute del cavallo che della
propria.
Anche le feste patronali e religiose come la festa di Picciano o
quella di S. Pietro attiravano a Miglionico molta gente dai paesi
vicini: tutti venivano col traino o con la charrette tirati da animali
infiocchettati da coccarde e nastri multicolori.
I trainieri che si ricordano sono: Don Giuvuann' Jridd' e Pasquale
Iardiedd'.
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MENDICANTE |
La carrellata di mestieri ed attività esaminati ci
offre un'idea delle condizioni di vita e di lavoro nella vecchia
Miglionico.
Tra i vari mestieri antichi occorre annoverare
anche il mendicante che vagava per la strade o bussava alle abitazioni
in cerca di aiuto economico, in assenza di uno Stato sociale. Queste
persone povere, malandate, cenciose arrivavano da altri paesi ed erano
lo spauracchio dei bambini. Infatti, quando una persona adulta ne voleva
intimorire uno, diceva: "Mo ven' lu puzzuent'".
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LA
DONNA
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Per
comprendere il ruolo assunto dalla donna presso la società contadina,
è sufficiente osservare la fotografia di un gruppo di famiglia:
generalmente la madre è posta al centro, gli uomini e le figlie dietro
o ai lati.
Questa posizione ci fa capire che la moglie costituiva il fulcro dell'economia e
dell' equilibrio della famiglia contadina in cui svolgeva un
ruolo fondamentale. Mentre la donna poteva sostituire la manodopera
dell' uomo o collaborava con lui nei lavori dei campi, specie in quelli
stagionali di mietitura, trebbiatura, raccolta delle olive, un uomo non
poteva mai prendere il posto di sua moglie o di sua figlia.
Le principali attività, oltre a quella domestica, consistevano nel
coltivare l' orto, raccogliere i frutti, allevare gli animali
domestici, vendere le uova. Nella società del passato, non esisteva
una distinzione netta tra lavoro e tempo libero, nel senso che una volta
assolti i compiti sopra descritti, le donne si dedicavano al ricamo, al
rammendo, alla filatura, alla maglia che costituivano nel contempo un
lavoro e un passatempo. A queste occupazioni si adempiva per lo più di
sera, quando le donne erano riunite nel vicinato.
Un altro compito riservato alle donne era il bucato le cui operazioni
duravano circa una settimana: le robe si raccoglievano in un grande cesto (sport') e, dopo quindici giorni, si mettevano a
bagno con la soda. Il giorno dopo si cambiava l'acqua e le robe si
strofinavano per la prima volta con il sapone e poi si lasciavano di
nuovo a bagno e si insaponavano il giorno seguente. La biancheria veniva
ammucchiata in un cofano forato alla base perché
scolasse; era coperta con un panno che serviva
a far filtrare la cenere. La
cenere serviva a rendere bianco il bucato che la mattina dopo si
sciacquava, "r'c(i)'ntav'" un paio di volte. Quindi la biancheria
veniva stesa e, una volta asciutta, raccolta in canestri.
Alle ragazze erano affidati compiti particolari come quello di riempire
l'acqua alla fontana o di gettare i rifiuti organici nel carro-botte.
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Fonte:
Mestieri
e Mestieri - Viaggio nel passato alla scoperta di mestieri scomparsi
Scuola Media Statale "A. Volta" - Matera |
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