IL
CROCIFISSO DI MIGLIONICO. Arte e spiritualità in una scultura del ‘600 di
Gabriele Scarcia.
E' assai singolare come a volte i
sentieri dell’esistenza di persone apparentemente lontane, accomunate magari
solo da profonde credenze di matrice spirituale, finiscano
per sovrapporsi nell’angusto cerchio della sopravvivenza e riescano a creare,
nell’ambito di un inconsapevole comune intento, simulacri inossidabili, punti di
riferimento per le contemporanee e future generazioni costantemente in bilico
tra esperienza religiosa e storia dell’arte. E quelle immagini, filtrate
attraverso l’ingombrante gusto del particolare momento storico e l’alone dei
vecchi secoli, ci sono spesso restituite con cristallina veridicità e
trasparenza come nel caso del Crocifisso
custodito in Miglionico.
Un opera d’arte questa, che getta
uno spiraglio di luce lungo ben quattro secoli, sulle vicende artistiche e
religiose siciliane e lucane del seicento, accendendo i riflettori su due
personalità certamente preminenti nell’ambito della già secolare presenza
francescana, due padri riformati che si ritrovano, in un delicato momento di
riforma dei costumi cristiani per la chiesa cattolica, a
incrociare e unire le impronte dei loro impolverati sandali per un amore ardente
condiviso e inseguito fino alle estreme conseguenze. Padre Eufemio, il
committente e Frate Umile, lo scultore, questi
i loro nomi; Miglionico e
Petralia Soprana (Palermo) i luoghi della vicenda.
I loro connotati biografici sono
descritti con autorevole e puntigliosa dovizia di particolari in due opere di
sfrontato carattere agiografico, le loro figure sono innalzate e protese dalle
descrizioni in direzione della santificazione Nella prima di tali opere, il “Paradiso
serafico del Regno di Sicilia “ composto nel 1687 dal P.
F. Pietro Tognoletto
appartenente allo stesso ordine dello scultore e suo contemporaneo, precisamente
nella Seconda Parte del Libro VII, al Cap. XXXIII, si apprende che l’artista
nacque in Petralia Soprana nella Diocesi di
Messina da Giovan Tommaso
Pintorno “maestro di legname” e da Antonia
Buongiorno (nel 1601 secondo recenti scoperte d’archivio).
Era questa una
famiglia benestante, la madre apparteneva ad una nobile casa
petralese; un matrimonio avvenuto nel 1588 e che
aveva dato alla luce ben 16 figli. Il giovane Francesco dopo aver appreso nella
bottega paterna i primi rudimenti di quell’arte così
preziosa per la quantità e la qualità delle opere che doveva produrre, varcò la
soglia di una qualche bottega di scultura in una Palermo pervasa, come del resto
tutta l’isola, da un rinnovato fervore artistico guidato dalle correnti
ispaniche. I Li Volsi, i Ferraro, i
Locascio, i Cagini ed
altre intere famiglie di scultori avevano già messo
in moto un processo creativo di limpido impegno apostolico, tale da suscitare,
attarverso la realisticità, sentimenti profondi di
conversione e pentimento. Naturalismo e verismo erano le facce di una stessa
medaglia dai chiari intenti pietistici e drammatici; confezionando una nuova
tipologia del Cristo Crocifisso, soggetto prediletto
dalla mistica fiancescana, ossessivamente attorniato
da una sofferenza senza tempo, Frate Umile, così come fu appellato dal
novernbre del 1623 quando fece il suo ingresso nei
francescani, determinò un vasto movimento artistico che andò ad
inspessire il già sostanzioso numero delle sue
splendide creazioni scultoree. Da Frate Innocenzo da
Petralia a Fra Stefano da Piazza Armerina, da Fra
Vincenzo da Bassiano a Frate Angelo da Pietrafitta,
presente quest’ultimo nella realizzazione in
Basilicata del Crocifsso di
Forenza. Era di particolare coinvolgimento emotivo e spirituale la
realizzazione di quelle sacre sculture “perfettissime”
a giudizio del Padre Tognoletto: “mentre
stava lavorando quelle statue egli alzando la sua mente alla contemplazione
pensava quei intensissimi dolori, che nella morte soffrì l’Autor della vita”.
Così nel chiuso di una cella, dove se ne stava serrato dentro intento
all’elaborazione del manufatto, con il cuore straziato e le lacrime agli occhi
dava mano agli ultimi ritocchi, non prima naturalmente di essersi confessato e
non permettendo a nessuno di accedere in
quell’angusto luogo di preghiere, raccoglimento e
creazione.
Fu proprio a Petralia Soprana che spettò
il primo di una gran quantità di crocifssi quasi
tutti scolpiti a grandezza naturale e che lo videro intento dall’ingresso nel
suo ordine nel 1623 al 1639, fin quando, “sorella morte” lo trapiantò a miglior
vita: “...essendogli finalmente aggravata l’infermità, e ricevuti tutti i
Sacramenti della chiesa con molta devotione,
e esemplarità, passò al Signore l’anno 1639,
alli 9. di
Febraro ad ore dodici vicino l’aurora primo giorno
di Quaresima”. Padre Tognoletto riferisce: “Scolpì
questo servo di Dio come alcuni dicono, da trentatré
Imagini del Crocefisso di legno”, un numero certamente
emblematico se si tiene conto dell’esclusione,
nell’elenco che ne segue. di opere come quelle di
Polla e Bisignano, le uniche peraltro firmate e
datate e naturalmente di quella conservata in Miglionico.
E fu proprio in quest’altro
pio luogo che prendeva simultaneamente le mosse la restante vicenda umana e
religiosa vissuta con il medesimo infervorato ardore. Nell’opera parallela a
quella del Padre Tognoletto del
R.P.F. Buonaventura da Laurenzana che ha per
titolo “Croniche della Riforma di Basilicata” del 1683, si legge che: “Nel Regno
di Napoli Provincia di Basilicata è una Terra insigne detta
Miglionico... in essa nacque il P. Eufemio
l’anno di nostra salute 1576...”. Il padre Marc’Antonio
Matera e la madre Rossella lo Porco erano di umile
estrazione sociale e nel battezzare il proprio figliolo, gli imposero il nome di
Giovanni Antonio, il quale: “dopo esser stato da suoi Genitori nelle virtù
Christiane ben educato, ...sentendo dentro di sé la
divina voce... si risolse... seguire la verace voce del Signore... e
Frat’Eufemio fu chiamato”.
Maestro dei novizi, superiore del suo convento, Custode della Riforma in
Basilicata, esperto teologo e predicatore nel Mantovano, nel Veneziano,
nel Trentino, in Germania e naturalmente in Sicilia.
Ciò che più stupisce
compulsando le due biografie sono
sostanzialmentee le tappe di una vita completamente
votata all’amore, alle virtù cristiane, tappe che combaciano nei tratti
prominenti per entrambi i personaggi. In ambedue i testi si menzionano gli
“esercizi spirituali”, le “continue orazioni”, la “santità”; si enumerano i
miracoli e le pene corporali che il Signore li degnò di portare non senza
sofferenza e con pacata accettazione.
Le ore più drammatiche e conformi sono quelle della
morte, per Frate Umile: “Fu portato quel devoto corpo da’ Frati in Chiesa... fu
tale il concorso del popolo, che tagliandoli l’habito
per devotione gli mutarono sette abiti, e fu di
mestiero mettervi le guardie degl’alabardieri vicino
alla bara mandati per ordine dell’Eminentissimo Signore Cardinal d’Oria...”; per
Padre Eufemio: “se ne volò al Cielo... restando quello cadavere tutto... a sì
divoto spettacolo fu tanto grande il concorso del
popolo, che bramava vederlo, toccarlo, baciarlo, e avere per
divotione, reliquia di lui, che il Capitano di detta
Terra con suoi, insieme con li Frati di quel Convento furono necessitati fare
grandissima forza per difenderlo, poiché chi gli tagliava, per
divotione, gli capelli, e chi l’habito,
del quale era restato mezzo nudo...”. Si diparte proprio da queste vicissitudini
là storia della sacra icona custodita nelle venerande mura della francescana
Chiesa conventuale di Miglionico. Accanto alle
fastose ed esuberanti forme del barocco più estremo,
convivono le studiate ricerche di un’arte verista che rispecchia la rigorosa
morale del popolo di Dio. Ciò che oggi noi contempliamo è la chiara visione di
una statuaria che prende forma prima che nella mente dell’artista nel cuore del
religioso, l’ardente materializzazione di una
vicenda, quella della Croce, che assume corposa consistenza nell’abilità scenica
del cromatismo mosso e cangiante, tra le aduste carni e la malinconica
animazione del dramma. La cosciente
sicurtà dell’espressione di un’inedita
bellezza è avvalorata dalla compostezza ancora classicheggiante. Una quiete
meditativa avvinghia l’animo rabbrividito di chi esamina, con polarizzata
attenzione, centimetro per centimetro l’opera intera; risalendo, tra fiumi e
cascate di sangue, le sacre membra, dallo strazio dei piedi orribilmente
aggravati e lacerati dall’intero corpo esanime, alle illividite ginocchia memori
di violente rese al suolo. Il panno stazzonato aggrappato ad una corda, cingendo
i fianchi lascia scoverto il lato destro tutto e
poco del sinistro, unico emblema di un barocco dimesso per le sue pettinate movenze che creano gorghi di luci e coni d’ombra; un pirotecnico effetto
coloristico nella zona dello slargato torace preannuncia
il taglio sorridente della ferita del costato da dove un’accesa lava di sangue e
materia fuoriesce ordinata a precipizio fin sulla coscia. Ma impazienti di
attendere alla visione di quella parte fatta più volte oggetto di leggende e
misteri, tra numerosi ed ulteriori rivoli di sangue,
piaghe e tumefazioni raggiungiamo carichi di dolore la testa, il più genuino
testamento spirituale del Petralese. In questo punto
si focalizzano e si concretizzano i moti dell’animo e
la ricerca interiore, la firma più autentica della mano del frate. Qui sono
espressi alcuni di quei caratteri distintivi della sua mano: dalla corona a
numerosi giri di spine, voluminosa e frastagliata, si dipartono una lunga spina
che trafigge il sopracciglio sinistro e un’altra ridotta nella lunghezza che
oltrepassa la cartilagine dell’orecchio sul medesimo lato.
Il
Tognoletto a tal proposito scriveva: “soleva
il Servo del Signore a tutte le sue statue di Cristo Crocifisso, che lui
scolpiva, mettere nel ciglio una spina pungentissima”.
La bocca semiaperta lascia intravedere i denti e la rossa lingua, gli occhi
rimangono socchiusi, la barba è scandita da leggere volute ad
esse, i capelli scrimati
nel mezzo ricadono a ciocche arricciolate e sulla spalla dove il capo ossuto si
adagia gravosamente ne scendono tre. Questo complesso di tratti distintivi, con
la particolare forma del perizoma, con i segni delle percosse
posizionate sempre nei medesimi punti del corpo e le
scorticature, realizzate con la pergamena, provocate ai polsi e alle caviglie
dalle funi, assicurano la paternità artistica allo scultore in questione. Ad
avvalorare questi dati meramente stilistici contribuisce la storia
indissolubilmente legata alla figura del Padre Eufemio da
Miglionico, per il quale è documentata la
presenza in Sicilia nel 1629, come ci è dato leggere nei manoscritti dei suoi
Sermoni. Difficilmente si scampava dalla sua irresistibile personalità e dal
desiderio di ascoltare le sue prediche.
Già nel 1626, come
ci è tramandato dal “Libro delle Messe”, era presente per la missione
nell’isola e a questo periodo può essere fatto risalire il primo incontro con il
frate-scultore. Ospite nello stesso convento palermitano da dove
Frate Umile irradiava la sua preziosa arte, in un
sogno apprese per bocca di N.S.G.C. crocifisso di un terribile terremoto in
Basilicata e dei suoi confratelli scampati
miracolosamente al sisma; presto
pensò di fare nella sua chiesa un calvario e ordinò la scultura. Di quel primo
viaggio accertato dovè portare con sé un segno già
tangibile di quel rapporto con l’artista, documentabile con una statuetta lignea
del SS. Ecce Homo che andò a primeggiare nel gran
reliquiario da lui commissionato per la sua chiesa di S. Francesco in
Miglionico. Dalle ridotte dimensioni, alta appena
sessanta centimetri, ha ossessionato per alcune settimane lo scrivente e
l’Arciprete di Miglionico, lo storico Don Mario
Spinello; i segni distintivi c’erano quasi tutti, dalla spina nel sopracciglio
alla bocca semiaperta dalla quale si intravedevano i
denti e la lingua, dalle ferite realizzate con la pergamena agli abbondanti
tratti di percosse, legature e rigonfiamenti, senza considerare la tragicità
dell’espressione e l’abbondante fuoriuscita di plasma.
Dopo svariate ricerche
una fonte d’archivio ha dato una battuta d’arresto alle prove per l’accertamento
dalla paternità artistica, infatti in un “Messale
Serafico Romano” vi era un’annotazione del 1878, in occasione di un sommario
restauro, che schedava l’opera come appartenente alla mano del Frate Umile e la
datava 1627. Non è da escludere che altre statue del Convento siano del
frate-scultore, ma solo sapienti lavori di restauro potranno darci risposte
rassicuranti. Quasi certamente il Crocifisso ordinato
fu ritirato nel soggiorno del 1629 o spedito a Miglionico
subito dopo il primo incontro. Sembra comunque
collocarsi a metà strada fra i lavori iniziali e le esigue impennate barocche
dell’ultimo periodo di attività. Riguardando i crocifissi
di Frate Umile e seguendone la cronologia di alcuni, quelli cioè avvalorati
dalla presenza di fonti storiche, appare subito evidente che non vi furono
evoluzioni graduali; una volta imparata bene l’arte, l’utilizzo di taluni
accorgimenti o particolarità fu affidato all’attimo del concepimento artistico.
Similitudini e differenze sono percepibili in opere tra loro lontane
temporalmente, lasciando in grave dubbio,
eccetto per le statue dell’ultimissimo periodo, sulla
loro collocazione temporale. Ho imparato seguendo le presenze dei
Crocifissi i nomi delle affascinanti e misteriose
località siciliane e calabresi che vantano la presenza delle sacre sculture; da
Calvaruso a Salemi, da
Aidone a Mussomeli, da
Cerami a Mojo Alcantara,
da Chiaromonte Gulfi a
Campobello di Mazara per
citarne solo alcune.
È stato un puro caso di fortuna se il
Crocifisso di Miglionico non abbia subito
restauri considerevoli durante i quattro secoli che ci separano dalla sua
realizzazione; oggi la statua si mostra come una
preziosa e trasparente carta
geografica nella quale sono registrate tutte le componenti dell’arte del
petralese. I toni
dell’incarnato, nonostante l’ossidazione delle vernici e il fumo delle candele,
sono tuttora leggibili nella loro chiarezza; la gran copiosità di ferite, tagli
e scorticature mostrano la cura dei particolari evidenziata con le diverse
tonalità di uno stesso colore; l’anatomia è studiatissima, dai tendini e dalle
vene ingrossate realizzate con spago, dalle lacerazioni con l’effetto della
carne squarciata e risvoltata fatta con la pergamena, dagli anelli della colonna
vertebrale. Il Padre Eufemio dopo aver stabilito la giornata penitenziale
per il suo Crocifisso, ovvero il 3 maggio, ha
affidato all’intera comunità cristiana di Miglionico
la testimonianza di un’arte e di una spiritualità che si rinnova con
l’adorazione. I gelosi custodi di questa tradizione festeggiano e ricordano
ancor oggi, attraverso i secoli, la Sacra Immagine: dalle nutrite processioni
devozionali per le pestilenze a quelle per la
grande guerra, da quelle per la carestia a quelle per
la pioggia, affinché quel messaggio d’amore verso Dio non sia mai dimenticato...
“Vedi queste mie carni, esauste da inedia, peste, da flagelli, lacere,
infrante... Guarda questa mia faccia, tutta piena di tristezza, lorda da sputi,
livida per le ceffate: guarda queste mie mani già prima legate da funi, ed ora
confitte ad un tronco co’ chiodi; guarda questi miei
piedi, già prima in moto alla traccia delle anime, ed ora inchiodati ad un
legno...”. Dai «Sermoni di Padre Eufemio da
Miglionico- Nella domenica di quinquagesima».
(Gabriele Scarcia, in Basilicata Regione Notizie n. 98 anno XXVI 2001
-
Vedi).
Leggi anche
Il
Crocifisso di Cima da Conegliano
tratto da
Miglionico. Il territorio e la sua storia
di Piero
Mele, Mario
Spinello, Nicola
Mele
Editore: Il
Grillo
Pubblicazione: 2008 |