MIGLIONICO.
Angelo Moccia, uno dei capi tra i più temuti della
camorra napoletana, il 3 febbraio 1992, quando era ancora un
camorrista potente, appartenente all’associazione delinquenziale
denominata “Nuova Famiglia”, in contrapposizione alla “Nuova
Camorra Organizzata” di Raffaele Cutolo, si consegnò alla
Giustizia dello Stato italiano e lanciò agli altri camorristi un
invito esplicito alla resa. La ricostruzione di questa vicenda è
al centro del libro “Una Mala Vita”, ed. Tullio Pironti,
Napoli, di Libero Mancuso (ex magistrato) e di Saverio Senese
(avvocato penalista). L’opera, che è strutturata in tre parti e
si articola in 24 capitoli, per complessive 232 pagine, è stata
mirabilmente presentata dal prof. Domenico Lascaro nella
sede del locale circolo culturale, “La Fucina”. Il relatore, nel
raccontare la vicenda, accaduta oltre venti anni fa, ne ha messo
in luce gli interessanti risvolti giuridici: “Non solo – ha
precisato – permette di ridare slancio ad iniziative finalizzate
alla prevenzione, al recupero ed alla battaglia per l’abolizione
della pena dell’ergastolo, ma consente anche di stimolare la
riflessione sull’individuazione dei possibili percorsi che
consentano l’allontanamento dal mondo della delinquenza
organizzata”. A seguito della “resa” del camorrista Moccia,
l’organizzazione delinquenziale di cui faceva parte, si dissolse
e parecchi camorristi si pentirono; Moccia, invece, si dissociò.
“Per rifarsi una vita, per tornare ad avere il rispetto dei
propri familiari, era necessario pagare il proprio debito con la
Giustizia, insegnando ai propri figli il principio che “chi
sbaglia deve riconoscere le proprie colpe, tutte, e scontarle.
Senza ricorrere a scorciatoie”. Poi, Lascaro ha precisato che
l’ex camorrista si rese, autore della proposta di
“dissociazione” dalla criminalità, “consegnandosi in un carcere,
senza chiedere nulla in cambio”. Si faceva strada l’ipotesi che
“la collaborazione limitata all’ammissione delle proprie
responsabilità sarebbe stata una manovra volta ad aggirare il
dilagante fenomeno del pentitismo ed a minare le basi
dell’offensiva giudiziaria che stava creando le premesse per la
piena sconfitta militare ed organizzativa delle associazioni
criminali della camorra campana”. In seguito, però, prevalse la
tesi di coloro che sostenevano: “Con i boss non si tratta, la
via è quella del carcere duro”. Nel corso del dibattito che ne è
seguito, Giovanni Finamore ha osservato come la pena giudiziaria
debba tendere alla rieducazione del condannato. In particolare,
è stato sottolineato che "la Giustizia, prima ancora di essere
una legge giudiziaria dello Stato italiano, è una virtù morale,
fondata sull’onestà, la lealtà e il senso del dovere, volta a
riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto". Infine, è stato
delineato il rapporto esistente tra la giustizia sociale e la
disuguaglianza sociale. Da qui l’opportunità di eliminare il
disagio sociale, di sopprimere la povertà economica ed arginare
al massimo il fenomeno della disoccupazione che, spesso, sono le
cause indirette di tante azioni delinquenziali. Giacomo Amati |