MATERA.
Esplosione di gioia nella sala consiliare della Provincia, ove,
sabato scorso (3a Maggio 2015), s’è svolta la giornata finale
della prima edizione del concorso letterario, a carattere
provinciale, “C’era una volta la scuola di campagna”, a cura
della prof.ssa Margherita Lopergolo, sempre più punto di
riferimento del mondo culturale miglionichese. Nell’aula
deputata all’elaborazione politica, per un paio di ore, e’
andata in scena l’atto finale, la cerimonia di premiazione dei
vincitori del concorso riservato sia agli alunni di ogni ordine
e grado della scuola statale del Materano sia ai letterati e
artisti. Al centro del concorso, patrocinato dal Gal Bradanica e
dai Comuni di Matera, Miglionico, Montescaglioso, Ferrandina,
Pomarico e Grottole, spiccano due obiettivi: far conoscere,
soprattutto ai giovani, i principi fondanti della “Civiltà
contadina” ed evidenziare gli elementi essenziali della “Riforma
fondiaria”. Un atto politico, quest’ultimo che, nel dopo guerra,
a partire dagli anni Cinquanta, con l’assegnazione delle terre
incolte, di proprietà dei latifondisti, ai braccianti agricoli
di alcuni centri del Materano, svolse un ruolo rivoluzionario,
cambiandone, in parte, il tenore di vita: furono tanti i
contadini che, grazie all’assegnazione di un pezzo di terra da
lavorare e far produrre, evitarono di allontanarsi dai loro
paesi natii. Fu placata la loro “fame di terra” e arginato il
deleterio fenomeno dell’emigrazione nelle città dell’Italia del
Nord e in quelle delle nazioni europee. Sono stati questi i temi
salienti che, unitamente a quello della lotta all’analfabetismo,
hanno ispirato i lavori prodotti dagli alunni, circa 500, che
hanno partecipato al concorso. “Gli scolari, soprattutto quelli
della scuola primaria e secondaria di primo grado – spiega con
orgoglio la prof.ssa Lopergolo, tra le eccellenze della cultura
miglionichese – con la preziosa guida dei loro insegnanti, hanno
prodotto tantissimi lavori: pregevoli elaborati grafici, poesie,
racconti ed interviste che hanno arricchito le loro conoscenze e
le competenze scolastiche”. Da parte sua, la dott.ssa Rosa
Fioriniello, presidente della giuria del concorso letterario,
sottolinea come tale iniziativa abbia rappresentato una
significativa opportunità di impegno e di conoscenza per gli
alunni che vi hanno partecipato con ammirevole entusiasmo. Alla
cerimonia finale hanno preso parte, tra gli altri, il presidente
della Provincia, Francesco De Giacomo, Leonardo Braico,
presidente del Gal Bradanica (Gruppo d’azione locale) e i
sindaci Angelo Buono di Miglionico, Giuseppe Silvaggi di
Montescaglioso e Francesco Sanseverino di Grassano. “E’ stata
come una festa di fine anno scolastico, un’esperienza fantastica
– osserva Anna Ziccardi, dirigente dell’Alsia (Agenzia lucana
per lo sviluppo e l’innovazione in agricoltura), va riproposta
anche nei prossimi anni, perché è ricca di una forte valenza
educativa e formativa”.
Ecco
l’elenco dei vincitori della prima edizione del concorso
letterario, “C’era una volta la scuola”. Sezione letteraria
adulti. Migliore poesia, “La scuola del passato” della poetessa
Nunzia Dimarsico (Primo premio), figura di spicco nel panorama
della poesia miglionichese; per la narrativa, primo premio allo
scrittore miglionichese Emanuele Canterino per il “Racconto
breve”; per il racconto autobiografico, primo premio alla
scrittrice Mariella Cavallo. Sezione artistica adulti. Primo
premio al “Quadrittico- Racconto stralcio della Lucania”
dell’artista miglionichese Ciccio Cinnella. Fuori concorso:
menzione speciale al pedagogista Domenico Lascaro per il saggio,
“Scuola e vita… in campagna”. Sezione letteraria alunni. Le
classi premiate: I A e II A (scuola primaria di Miglionico); V
A e V B (scuola primaria di Grassano); I E (scuola secondaria
primo grado di Bernalda); III C e IV B (scuola primaria di
Ferrandina); I C e I E (scuola primaria Marconi di Matera); IV A
(scuola primaria di Metaponto); II B ( scuola sec. primo grado
di Irsina); II A (scuola sec. primo grado di Montescaglioso);
IV B (scuola primaria di Montescaglioso). Premio Unla.
Riconoscimenti per Rosa Giliberti, Centonze Margherita ed Emilia
Silvestre. Premio “Amico Libro”: menzione speciale per Grazia De
Vincenzis. Premio “Alberto Parisi”: migliore intervista per la V
C (scuola primaria di Montescaglioso); III C (scuola primaria
Marconi di Matera). Scrittura emotiva: primo premio per la
classe V B (scuola sec. secondo grado “Isabella Morra” di
Matera). Giacomo Amati
..........................................................................
In
veste di Presidente della giuria, un vibrante plauso va a tutti
i partecipanti del concorso che, a diversi livelli, si sono
prodigati per la riuscita ottimale di questa manifestazione. Gli
elaborati pervenuti, in cui gli autori si son cimentati
magistralmente, son risultati eccelsi ed originali, ed hanno
conferito, in diverse forme espressive, un contributo culturale
e formativo al processo di ricerca messo in atto dal concorso,
riferito al lavoro svolto dai maestri nelle scuole rurali,
scandagliando aspetti significativi dell'epoca, anche attraverso
incontri ed interviste ai protagonisti della nostra storia.
L'auspicio è, quindi, di riuscire a scorgere e soprattutto non
dimenticare le caravelle della speranza del poter fare, poter
diventare, poter rinnovare come è stato fatto e come ci hanno
insegnato i nostri padri, al tempo della riforma fondiaria.
Un doveroso ringraziamento a colei che con dedizione,
entusiasmo, qualificate ed apprezzate capacità, da mesi è stata
impegnata, instancabilmente, nella programmazione e
realizzazione delle diverse fasi del concorso, nonché autrice
del saggio a cui il concorso è ispirato, Margherita Lopergolo.
Rosa Fioriniello
-------------------------------------------------------
EMANUELE
CANTERINO. Racconto breve
Si
stava tra i banchi di una classe poco probabile, in una stanza
di una scuola di campagna fatta di pietre ammassate, l’una su
l’altra, si di muri a sacco. Il tetto era ordito con tronchi
grigi imponenti ed irregolari, sormontati da trame di canne
ingiallite, una vicina alle altre ... come fossero fiammiferi
riposti nel loro astuccio. Questo è quello che ricordo di quel
tempo in cui si andava a scuola, nonostante i campi da coltivare
sembravano aspettarmi subito dopo l’uscio della porta, di quella
classe. Avevo dieci anni e frequentavo la terza.
Era una classe particolare, forse una moltitudine di classi
raggruppate in una sola, si ... la chiamavano la multiclasse.
C’era chi frequentava la prima, chi la seconda e chi poi la
terza, ma tutti insieme. Gli amici più grandi, quelli della
quarta e della quinta, frequentavano le lezioni in un’altra
stanza.
Nella stanza si seguivano le lezioni in più di trenta, seduti in
banchi di legno massiccio di colore scuro a gruppi di due.
Ricordo che erano molto alti, a stento riuscivo a scrivere. Il
piano di appoggio dei quaderni, leggermente inclinato, era
pregno o forse a dir meglio impregnato di gocce di inchiostro
ormai asciugato. Era un’impresa maneggiare correttamente la
penna a pennino con l’apposito calamaio, colmo d’inchiostro,
riposto alla destra del banco,in alto, era una missione riuscire
a far asciugar bene l’inchiostro sulla pagina appena riempita di
lettere ... con quella specie di foglio supplementare, la carta
assorbente, che serviva a tamponare i percorsi più umidi,
intrapresi con la penna.
Quanti ricordi . quella multiclasse, si era in tanti ed eravamo
una moltitudine di stili per il nostro modo “originale” di
vestire. Chi con i pantaloncini di velluto, chi con i pantaloni
rattoppati ereditati dal fratello maggiore, adattati alle gambe
più corte del più piccino. Chi con le scarpe, e chi scalzo, chi
indossava una camicia pulita o che all’apparenza sembrava, chi
una maglia di lana ingiallita piena di macchie e di sudore. Era
un ginepraio di carnagioni, di espressioni e di sudori ... i
quali spesso abbracciavano la stanza, soprattutto nel periodo
invernale, quando quel poco di finestre dovevano rimanere chiusi
per proteggerci dalle intemperie. Che sinfonia di olezzi!
In quella stanza erano presenti più bambine che bimbi. Molti
genitori infatti erano restii nel mandare i propri figlioletti
maschi a perder del tempo, fra i banchi. Almeno così credevano
tali genitori, ricordo che dicevano: ”vrazz arrubuat all’agricolturr“
riferendosi alle scuole rurali. Tradotto, volevano dire “braccia
rubate all’agricoltura”, così certi sostenevano.
Da un lato comprendevo quella loro chiusura, cosa ne potevano
sapere loro della conoscenza e della cultura, loro cui la loro
vita era, da sempre, scandita solo da lune crescenti e calanti,
da mesi fertili per questa e quella coltura e dai diversi tipi
di semine?
D’altro canto comprendevo che più imparavo a leggere, più
leggevo, più mi innamoravo di un mondo che poco faceva rima con
le zolle,aratri e la puzza di piscio nelle stalle.
Non sto sostenendo tutto ciò in tono sprezzante, Dio non me ne
voglia, sostengo solo che la vita contadina mi apparteneva e mi
appartiene ancora per radici e
per mia genesi. Ma partendo proprio dalle radici e dalla genesi,
ringraziando le maestre missionarie, le scuole rurali e quegli
statisti, che con grande lungimiranza, furono principio di linfa
ed ali per le classi meno abbienti ... mi stavo rendendo conto
che il mondo rurale era solo un solido trampolino di lancio per
la mia vita, ma la conoscenza e la cultura stavano diventando un
modo per leggermi dentro e per conoscere realmente cosa fosse il
mondo e cosa volessi io da esso!
Grazie a chi con la politica, un tempo, voleva trarre virtù
dall’intero paese, grazie a quelle riforme io, figlio di
agricoltore, mi trovo oggi, da tutt’altra parte e con un futuro
diverso da quello che i campi da coltivare forse, mi avrebbero
propinato. Ritornando alla mia multiclasse si, era piena di
bimbe e forse era meglio per noi, pochi bimbi, per noi, a questo
punto, pochi fortunati. Nonostante fossero più di venti, il mio
cuoricino, all’epoca, iniziò pian pianino ad affezionarsi a
Giuseppina. Frequentava la prima classe, diceva lei, ed io
sempre la terza. Era graziosa e piccolina, taciturna e
riservata. La maestra Lucrezia si arrabbiava un po’ con lei, per
quel suo essere così restia nel comunicare, così da sembrare a
volte o tonta o muta. Chissà quale educazione avesse ricevuto
Giuseppina, quasi sembrava una Suora Orsolina. Lasciate che io
un po’scherzi con questo mio giocar con le rime, non me ne
vogliate. Scherzi a parte, sembrava veramente una statuina, a
volte!
La maestra Lucrezia diceva che se non si fosse svegliata un po’,
l’avrebbe portata, un giorno, alla fiera d’Agosto per esporla al
pubblico, insieme alle pupe di pezza e poi a Settembre insieme
alle pupe, fatte di fichi secchi.
Sedeva sempre ad uno dei primi banchi, ed era doviziosa nello
scrivere ogni parola che la maestra dettava, ogni compito per
casa od ogni nome di qualche birbantello, da segnare alla
lavagna, quando Lucrezia si assentava, momentaneamente, e ci
imponeva così il gioco del silenzio.
Giuseppina indossava spesso un giacchino di lanetta rosa ordito
all’unginetto dalle prodigiose mani di sua madre Concetta, abile
sarta, indossava spesso camicette di cotone grezzo bianche
abbinata a gonne e calzettoni di lana scura, grigie, ed
indossava delle zoccolette, chiuse in avanti, per metà in legno
e per metà di pelle scura.
Un accessorio di cui lei mai si privava era una crocina marrone,
piccola, che le adornava quel piccolo petto, cui veniva tenuta
in su da una collanina di spago bianco. La crocina, si quel
simbolo di speranza che abbracciava un po’ tutti, piccoli e
grandi, nel paesello dove si sopravviveva!
La croce che per noi tutti era un po’ quel palo della cuccagna
dove oltre il legno e la pece, nella parte più alta erano appesi
i sogni, quei sogni che facevano immaginare i miracoli, miracoli
di ogni sorta ... dalle lacrime di una Madonna ad una cucina
nuova, dalla doviziosa mietitura, alla consegna della propria
figlia tra le braccia di qualche galantuomo.
Erano i sogni che si confondevano con i miracoli, era la miseria
che si concedeva alla religione. Questo era quello che aleggiava
tra me e Giuseppina quando sorridevamo, questa era l’Aura che
accarezzava gli occhi stanchi e scalfiti dalle bestemmie e dalla
miseria, dei paesani.
Quei giorni, quei mesi, quegli anni trascorrevano lenti tra quei
banchi, forti tra gli stessi odori, chini tra gli stessi inganni
. ed insieme ad essi per me rimaneva lo stesso, l’affetto che
avevo conosciuto per Giuseppina.
Date le mie qualità che man mano emergevano attraverso i temi e
i “conti” della matematica, dopo aver frequentato la quinta
elementare mia madre volle fortemente che io continuassi gli
studi. Ella riuscì a convincere mio padre, in tale suo intento.
Si, mio padre mi voleva in campagna, insieme ai miei fratelli
più adulti, voleva tastare finalmente la mia virilità tra le
zolle, sarmenti e tra le spighe alte di grano, si . in ogni
colpo di falce sotto il sole dei mesi più cocenti.
Mia madre Dolorata, ovvero Addolorata, con dolore aveva
rinunciato ai suoi studi per dedicar la sua intera vita a far
quieta la casa, prima dei miei nonni e poi quella di nostro
padre Francesco, con tutti noi figli “appresso”! Questa donna
minuta ma forte, mia madre, con sensibilità ed intelligenza,
riuscì a spuntarla rispetto le volontà di mio padre. Grazie a
dei servigi offerti, anni addietro, ad un Signorino del paese,
ricevette un prestito e così quel sacchetto di monete mi permise
di studiare in collegio, in una città che porgeva il suo volto
all’Adriatico, lontana dai campi lucani.
Quel distacco dai colli, dai dirupi e dai calanchi fu per me
croce e allo stesso tempo delizia. Fu delizia perché
frequentando la città, i suoi rumori e i suoi umori compresi
subito che la vita aveva un suo fascino. Si la vita la vedevo
finalmente da una prospettiva diversa rispetto al passato, prima
blindata dal sacro e dal grottesco, del vissuto nei campi!
Infatti il sol fatto di annusare l’odore della cioccolata calda
che si liberava dalle vetrinette giù per le strade, nei bar, in
inverno o il lasciarsi accarezzare delle onde che fedeli si
posavano sul lungo mare, quando sonnecchiavo al sole aspettando
il maestro di canto, al pomeriggio . mi faceva comprendere che
la vita non poteva solo essere scandita dai mesi delle varie
semine, delle lune che andavano e tornavano, dagli aratri e
dagli arnesi la limare per la nuova stagione o dai miracoli, da
aspettare quando si riponeva per terra il crocifisso, volgendolo
verso l’alito dell’Ostro che spesso portava la pancia colma di
pioggia.
Fu croce, si quel distacco fu anche una croce perché per lunghi
mesi mi sembrava portala sulle spalle nel non vedere più quei
colli, quei dirupi, quei calanchi, i miei cari, certi profumi. E
poi, ormai da tempo, non vedevo più nemmeno Giuseppina, col suo
spago e la sua crocina al petto.
La città con le sue insegne colorate, le sue luci e i suoi odori
iniziavano a dipingere tante belle emozioni dentro di me, ma di
contro mi avevano allontanato da quell’emozione principe,
l’unica che mi provocava brividi nei dintorni dell’ombelico! E
quella sensazione di vertigini, intorno all’ombelico me l’aveva
insegnata lei, Giuseppina. Quando qualcuno ti infetta con
l’amore, è difficile poi non lamentarsi ... è difficile
impegnarsi, affinché si guarisca!
Poi però, come spesso accade, la distanza, le mie lunghe pause
dal mio paesello, le varie distrazioni, lo studio iniziarono
piano piano a far scolorire il contorno del volto, della
ragazzina dalla crocina sul petto. Quegli anni in città mi
permisero di volare attraverso il cielo delle mie passioni, la
scrittura, il canto e i concerti polifonici che il mio collegio
proponeva nelle chiese più note, delle diverse città importanti
italiane. Più riempivo il mio cuore di soddisfazioni, di
conoscenza e di rivincite rispetto la mia infanzia brulla ed
anonima, più mi svuotavo di quel sentimento per Giuseppina, più
svanivano i ricordi di quelle sue camicette bianche di cotone .
della sua crocina, della mie croci!
In quegli anni la vita mi stava regalando tanto, ma allo stesso
tempo mi stava separando da quell’essenza cui io portavo da
sempre dentro ... la mia Genesi contadina! Quella Genesi che non
raccontava solo l’amarezza del sudore dei braccianti, divenuti
poi col tempo, possessori di piccoli appezzamenti di terra, non
solo di quella Genesi che raccontava il puzzo e il grezzo che
c’era nelle urla, nei rutti e negli sguardi spiritati di chi se
ne tornava arso dai campi di fine Luglio . La Genesi di cui sto
parlando ha un volto antico, forse mai menzionato o approfondito
a dovere ai tempi della mia giovinezza. Sto parlando della
devozione e del rispetto che le donne e gli uomini delle zolle e
dei dirupi arsi e aspri, ponevano nei confronti della Madre
Terra. Madre perché culla di quelle vite, Madre perché donatrice
di cibo per il sostentamento!
Quella Genesi che mi stava abbandonando, era pregna
dell’educazione rigida, ma benevola e sincera che quelle donne e
quegli uomini pregni di terra donavano, come unica ricchezza,
alla propria prole. Sto parlando di un’educazione autentica, che
nella semplicità si srotolava giorno dopo giorno su quel vissuto
quotidiano, ma che mai banale si svelava, agli occhi dei figli,
un giorno poi, adulti!
E quando adulto mi son riconosciuto, un giorno di fine estate,
mentre scrivevo per un saggio dinanzi al mare, lasciandomi
andare al lento mormorio delle onde, ho ripercorso gli occhi di
quegli adulti. Erano i figli degli emigranti, conosciuti per
caso nei miei diversi viaggi di lavoro! Mentre conversavo con
loro, nei loro occhi colmi di emozione ho compreso che
quell’emozione era anche la mia, forse era la stessa che provai
quando vidi per la prima volta il mare .e poi piansi. Si
compieva sempre un rito, in quegli incontri, erano le essenze
delle campagne, strappate via di li dal tempo, che dopo tanto
tempo si ricomponevano più in là, in città, in treni, aerei e
nei continenti più sperduti . noi figli, come semi e pollini
volati via, insieme al vento della conoscenza, da quegli alberi,
da quei fiori che giacevano nel ricordo di quella campagna, dei
nostri genitori!
E riscoprendomi adulto ho compreso che le città, i libri, la
vita dinamica scandita da quei mezzi di trasporto sempre più
veloci e da quelle tecnologie sempre più d’avanguardia, esse mi
hanno reso come un palazzo alto, imponente e pieno di luci. Ma
le campagne, le lune che tornavano e andavano, gli aratri e
quelle classi colme di figlioletti negati alla vita dei campi,
hanno permesso di riempire gli spazi nel mio palazzo . di
famiglie, di gente che viene e che va, di attività tali da
render vivo il mio cemento. Questa è la mia Genesi, questo il
suo incanto!
Ho ritrovato Giuseppina diversi anni fa su di un treno, sulla
Freccia Salentina. Lei tornava da Milano, era stata al nord per
le feste pasquali per stare un po’ coi suoi figli. Io ritornavo
da Bologna, dopo la presentazione di un mio libro.
Ci siamo semplicemente ritrovati in uno sguardo, mentre mi stavo
recando nel vagone ristorante . ci siamo semplicemente ritrovati
in uno sguardo, intenso come un bacio, così lungo da esserci
ritrovati a destinazione, da sembrarci che il tempo trascorso
fosse stato un istante!
Forse certe cose non cambiano mai e questo l’ho compreso col
tempo, in cui la vita si ripropone come le stagioni, nel
rivedere Giuseppina, nel rivedere certi rioni e certe azioni
ripetersi quasi intatte, con l’incalzare delle stagioni!
Forse certe cose non cambiano mai . certi anziani ti guardano
ancora con gli occhi curiosi di una volta e a volte spiritati,
come quelli arsi da quel sole e da quel vino di sempre e ti
raccontano ancora storie e ti consigliano con proverbi, quelli
che per un ex-alunno della multiclasse, sono quelli di sempre!
Certe cose non cambiano mai, torno al paese e rivedo quei
contadini e quei loro campi e penso che tutto sono stati .
fuorché quegli zappaterra, di sempre! Emanuele
Canterino (facebook.com/Canterinopoems)
............................................................................
LA SCUOLA DEL PASSATO di Nunzia
Dimarsico
Erano altri tempi quelli di
ieri…
quando l’ignoranza era
l’ombra delle parole
e a scuola si andava…
con la fatica dichiarata in
uno sguardo
e il freddo taciuto nel
colore delle mani!
Erano altri tempi quelli
delle nonne
quando la miseria era la
sovrana delle case
e i sogni erano dignitose
utopie senza le ali!
La scuola del passato… era
disagio
ed era sudore misto a
quello dei padri,
che pronti ad ogni albore,
erano disposti ad abbracciare le ore
tra la polvere della terra
e sotto il sole a bruciarsi la pelle!
Era sacrificio per chi
l’indigenza
la inalava nei lunghi
sospiri,
ed era abnegazione per chi
aveva l’ambizione
di cambiare il tempo… in
uno migliore.
Era il sogno per il futuro
di chi voleva andare oltre
il velame della stessa sorte,
ed era il presente…
per chi studiava anche di
notte con una luce fioca
per non svegliare l’altro…
dalle strenue forze in cui cedeva.
La scuola del passato
era quaderno con la
copertina nera,
era abecedario ed era
calamaio e pennino vero,
ed anzitutto scrittura viva
sui fogli ingialliti dai
pallori delle fatiche.
Quella scuola… era rispetto
degli scolari
per l’unico maestro che era
padre o madre
in quelle ore…
dove la parola si faceva
regale in un silenzio riverente
per rimanere ferma… nella
memoria di un sempre.
La scuola di ieri
è ricordo immutato in un
racconto vivo
di chi ha ancora la voce…
in un’emozione pura
per illustrarne la gioia
che dava la mano al dolore
quando il sole o una
penombra
pennellavano di un chiarore
o di uno scuro
una realtà antica e dura…
che oggi rimane… come
fotografia sbiadita…
con le sfumature nel suo
passato!
............................................................................
Scuola e vita…in
campagna di Domenico Lascaro
Ringrazio
vivamente l’autrice del concorso che mi ha stimolato a scrivere
questo“racconto”; non ho mai osato esporre pubblicamente i miei
sentimenti, perciò le sono infinitamente grato. E’ un’iniziativa
di alto valore letterario, sociale e morale, che fa onore a
colei che l’ha ideata e a quanti hanno contribuito a fornire
l’imprimatur istituzionale.
Partecipo volentieri per offrire una testimonianza diretta, come
ex alunno e come insegnante nelle scuole di campagna. A una
condizione: che il lavoro non sia considerato concorrente al
premio finale, ma solo come un modesto contributo alla riuscita
dell’iniziativa. Poiché uno degli obiettivi del concorso è la
“conoscenza e lo studio della storia e della civiltà contadina
di Basilicata”, penso che sarò in tema se proverò ad associare
altre esperienze riguardanti, in generale, la vita agreste che
ho vissuto negli anni della scuola rurale.
La frequenza della prima classe inizia nel lontano 1949 nelle
scuole elementari di Miglionico. E’ una classe composta di oltre
trentacinque alunni. L’insegnante, una giovanissima Ida Bruni,
ci porta quasi tutti in terza elementare; la passione e
l’impegno profusi le vengono riconosciuti da tutti, alunni e
genitori. Le scuole sono situate nel vecchio convento dei frati
cappuccini; uno stabile mal conservato, ma ancora idoneo a
contenere oltre cinquecento alunni. Non ha di servizi igienici
regolamentari -gli scarichi sono direttamente collegati ai
condotti che vanno a finire nei dirupi sottostanti - né sistemi
di riscaldamento e di illuminazione adeguati.
Nei mesi invernali, prima del suono della campanella, una delle
due bidelle in servizio, Giuseppina, Peppinella, si premurava di
accendere la carbonella in grandi bracieri, soffiando con un
ventaglio di rame. Ahimè, il calore prodotto serviva solo a
riscaldare gli insegnanti e, a turno, qualche bambino
infreddolito.
Il primo giorno di scuola, dopo l’appello, la maestra ci
condusse, salendo per una larga scala, in un’aula del piano di
sopra. Era uno stanzone lungo e stretto, illuminato da due
finestroni che si aprivano all’interno del chiostro. Siccome ero
tra i meno alti, - c’erano già alcuni ripetenti –per esplicita
richiesta di mia madre, occupai il primo banco insieme con mio
fratello gemello. All’epoca i gemelli non andavano separati, né
si vestivano in modo diverso.
I
più alti furono sistemati negli ultimi banchi, composti di
strutture di legno compatto. Comprendevano la seduta e lo
scrittoio, ribaltabili per agevolare l’ingresso dei bambini.
Nella parte fissa erano ricavati due fori, uno per ogni
posto-alunno; servivano a collocarvi i calamai per l’inchiostro.
I banchi più bassi erano posti avanti, in fondo quelli più alti,
per consentire a tutti la visuale della lavagna e di essere
facilmente seguiti dall’insegnante. Ciascuno era corredato di un
ripiano sottostante e di un poggiapiedi.
Fin dal primo giorno s’inizia con la matita a riempire pagine e
pagine di aste, cerchi e bastoncini. Dopo qualche tempo si passa
alla scrittura delle letterine. E via con altre decine di
pagine. Passano alcuni mesi ed è la volta delle sillabe. Stesso
monotono esercizio che i bambini eseguono con rassegnata
sollecitudine. Si procede con la lettura delle prime sillabe –
ba be bi bo bu, ma me mi… L’apprendimento dei numeri avviene
allo stesso modo: scrittura di intere pagine e riconoscimento
contemporaneo del valore numerico.
La lettura delle prime frasi, a metà dell’anno scolastico; alla
fine, i più bravi riescono a leggere interi brani. L’esercizio
più comune,a casa, è quello di leggere, dieci-venti volte, il
brano assegnato. Dopo aver imparato a contare entro il venti,
con l’ausilio di fave e ceci, si cominciava con le prime
operazioni aritmetiche. Seguivano i primi dettati e la
memorizzazione di filastrocche, il disegno spontaneo e la
lettura di qualche favola da parte dell’insegnante. Solo ad anno
scolastico inoltrato si usava la penna con l’inchiostro.
Qui veniva il bello. Il nero fluido non sempre si usava per
scrivere; spesso finiva per imbrattare le mani e i visi dei
bambini. I quaderni erano tutti uguali: la copertina di colore
nero, su cui si applicava una targhetta per scrivervi il nome e
il contenuto. Mi sono dilungato sul metodo di apprendimento
della lettura e della scrittura, allo scopo di descrivere qual
era effettivamente la metodologia applicata nel periodo
post-bellico. I metodi attivi, il globalismo, l’insiemistica e
quanto di nuovo è emerso negli anni, erano ben lontani
dall’essere conosciuti.
I due anni successivi si svolsero con estrema regolarità e la
massima efficacia di apprendimento. Non tutti riuscirono a
superare gli esami di seconda classe e dovettero ripetere
l’anno. Nonostante il periodo fosse caratterizzato da un
rigoroso metodo disciplinare, non ricordo che la maestra abbia
mai fatto ricorso alle punizioni corporali. La bacchetta serviva
solo a indicare figure o scritte sulla lavagna.
Relativamente alla classe terza, conservo, nitido, un solo
ricordo. Erano gli anni della costruzione della diga di S.
Giuliano; da Roma e dal Nord Italia giunsero diversi tecnici che
trovarono alloggio,con le loro famiglie a Miglionico. La classe
si arricchì di un nuovo alunno di nome Angelo De Silvestri. Il
cognome, insolito dalle nostre parti, la statura più elevata
rispetto agli altri, sempre ben vestito e pettinato, lo resero
il compagno preferito da tutti; risultò subito il più bravo;
sembrava disceso da un altro pianeta.
Quel particolare periodo storico era contraddistinto da una
netta separazione tra Nord e Sud, sia sul piano economico, sia
sotto l’aspetto sociale e culturale. Il Nord ricco ed
emancipato, il Sud arretrato e sottosviluppato. Erano anni bui
sotto ogni punto di vista. Si scontavano le sofferenze inferte
dalla guerra. La miseria era generalizzata; gran parte della
popolazione viveva in case fatiscenti che, spesso, erano ubicate
sotto il livello stradale. I lavoranti più fortunati erano a
giornata, o ad anno intero,presso i proprietari terrieri, mal
pagati e senza un minimo di protezione sociale.
Prestavano ininterrottamente il loro servizio per svolgere i
lavori più vari: portare gli animali al pascolo, mungere quelli
da latte, arare i campi e quant’altro fosse necessario. Il
vitto, quanto di più frugale possibile; il compenso era per lo
più corrisposto in natura: grano, cereali, legumi, una decina di
litri d’olio, una “pezza “ di formaggio, qualche indumento
dismesso dal padrone. Tra gli artigiani, falegnami e i fabbri
erano i più avvantaggiati. I primi perché, solitamente, erano
gli unici a realizzare i mobili per arredare le case dei novelli
sposi: un letto, un armadio, una cassapanca per la biancheria,
una per le derrate alimentari e quattro sedie. I secondi per
l’alto numero di muli e asini che avevano bisognodi essere
“ferrati”.
I calzolai non se la passavano tanto bene. Era uso andare a
“giornata” nelle case di chi aveva necessità del loro servizio:
riparare,o costruire dal nuovo le scarpe. Vi rimanevano tutto il
tempo necessario, compreso pranzo e cena. I barbieri, per la
maggior parte del tempo, si dedicavano a strimpellare la
chitarra. Solo il sabato sera e la mattina della domenica
lavoravano sodo, quando i contadini, a fine settimana, tornavano
dai campi. Insomma, tranne i grossi proprietari terrieri, che da
sempre avevano una vita agiata, anche gli artigiani non facevano
salti di gioia.
Lo stesso tessuto urbano era in condizioni di estrema
precarietà; l’igiene e la manutenzione delle strade erano
pressoché inesistenti. Sciami di mosche e d’insetti invadevano
strade e abitazioni. L’arrivo degli americani, che portarono un
nuovo prodotto per disinfestare l’ambiente, servì ad attenuare
il fenomeno. Ma il D.D.T., era quello il nome dell’insetticida,
era tossico e pericoloso per la salute. Oltre ai vari insetti
che infettavano l’ambiente, altri animali vi contribuivano
massicciamente: muli, asini, cavalli che spesso facevano i loro
bisogni per strada; animali da cortile – galline, maiali, cani -
tenuti nelle stalle dell’abitato, davano anch’essi un notevole
contributo.
Era consuetudine, in quegli anni, che tutta la popolazione
nutrisse un maiale, il porco di Sant’Antuono, il quale, mozzate
le orecchie, girava libero per il paese in cerca di chi gli
desse qualcosa da mangiare. Naturalmente anch’esso dava una
mano, meglio un piede, a imbrattare l’abitato. Alla pulizia
delle strade erano adibiti pochi “spazzini”, con pochi mezzi e
tanto lavoro. A rendere ancor più precarie le condizioni
igieniche era la quasi totale mancanza di acqua corrente.
La struttura fognaria era stata attivata solo dagli anni ‘36/37
e i bagni privati erano solo appannaggio di pochi. S’immagini il
disagio immane che la popolazione era costretta a subire. Ogni
mattina, alle prime ore, girava per le strade il “sc’ttacallar”,
l’addetto alla raccolta della “produzione notturna”; il
contenuto si versava nell’apposita “callara”, sistemata su un
carretto tirato da un asino; veniva svuotato, a cielo aperto,
nei burroni sottostanti. Quale attrazione per mosche e randagi!
Per le necessità di acqua potabile, la maggior parte delle
famiglie faceva ricorso agli acquedotti pubblici. L’erogazione,
però,spesso avveniva a giorni alterni e solo per poche ore. Già
dalla sera prima, o al mattino presto, bisognava guadagnarsi la
prima posizione. Si deponevano presso i fontanini, in ordine
d’arrivo, i recipienti più vari: barili, anfore, damigiane e
quant’altro. Quando non si rispettava il diritto di precedenza,
sorgevano infinite discussioni, non sempre in forme civili:
donne che si accapigliavano, prepotenti che non rispettavano il
turno, recipienti che volavano via. Le famiglie più ricche
usavano altri sistemi. Con poche decine di lire assoldavano il
“carresc’a iacqua” e, a dorso d’asino, si facevano portare
l’acqua dalle fontane d’intorno.
Queste le condizioni nelle quali erano costrette a vivere le
famiglie più povere. Spesso, nei mesi più caldi, si vedevano
andare in giro bambini a piedi nudi per risparmiare le scarpe
per l’inverno. In assenza di attrattive e di strutture idonee,
come passavano il tempo i ragazzi, una volta fuori dalla scuola?
I luoghi più praticati erano la strada e gli spazi incolti
intorno al paese. Non appena finivano di “divorare” il solito
piatto di minestra – molti dovevano contentarsi di una fetta di
pane e olio, con una spruzzatina di zucchero - subito in strada
in cerca dei compagni; armati di “ciucc e mannedd” o di “cerchio
e mart’llin’”, gli attrezzi di gioco più comuni, iniziavano il
“dopo scuola” abituale.
Qualche volta accadeva che, con la modica cifra di dieci lire,
si poteva assistere, nel vecchio cinema, alla proiezione di un
cartone animato. I ragazzi più grandi ricorrevano a qualcosa di
più emozionante:in ogni rione si organizzavano in vere e proprie
bande, contro i quartieri avversari. Spesso si “dichiaravano
guerra” e si disputavano vere e proprie battaglie, armati di
pietre, bastoni e con le usatissime fionde. Che io ricordi non
avveniva mai che ci si facesse davvero del male. Talvolta la
sfida si riduceva a battersi su un terreno di gioco: per una
partita a pallone, una sfida a “ciucc e mannedd” o una corsa
campestre. Niente a che vedere con le cruenti battaglie
disputate dai “ragazzi della via Pàl”.
Tra i tanti trastulli che occupavano il mio tempo
post-scolastico, uno lo ricordo ancora con nostalgia. Il merito
era tutto di un compagno di pochi anni più grande. Aveva la
precoce vocazione a esercitare l’arte del comando. Raccoglieva
intorno a sé i ragazzi più piccoli e li addestrava alla marcia,
all’esecuzione degli ordini e al rispetto dei capi. Gli
confezionava divise di carta, berretti colorati, bandierine
tricolori da sventolare e, in fila indiana li faceva marciare
per le strade del paese.
A ogni punto strategico dell’abitato, su un muro o sulle scale
di qualche abitazione, il “capitano” improvvisava un“comizio” di
fuoco. Era il giovanissimo Mariano Montemurro. Nell’età più
matura non si è minimamente smentito: prima di trasferirsi a
Matera per insegnare Italiano nei Licei, fondò un circolo
cultural-ricreativo, - il glorioso 7M – che, per più di un
decennio raccolse intorno a sé il meglio della gioventù
miglionichese. Ci ha lasciati pochi anni fa.
Chiudo la parentesi e, prima di passare alla quarta classe,
dedico un cenno a tre diversi episodi, gli unici della scuola
“d’asilo”. Ero seduto di spalle a una dispensa contenente
materiale scolastico. Mentre mi stavo beatamente dondolando,
perso l’equilibrio, caddi rovinosamente all’indietro e infransi
il vetro della credenza, riportando escoriazioni,
fortunatamente, di lieve entità. Secondo episodio. A turno, il
comune forniva un pasto caldo a chi ne avesse bisogno. Un giorno
un piattone di pasta e fagioli mi causò l’irreparabile.
Al momento dell’uscita, nel tratto dalla scuola a casa, il pasto
consumato con tanta foga si disperse tutto per la via. Arrivato
a casa mia madre mi calò tutto intero in una tinozza di acqua
bollente. L’ultimo riguarda l’esercizio del “confezionar
barchette”, molto in uso, all’epoca, nella scuola materna. La
carta usata era piuttosto spessa e nelle frequenti “battaglie”
che avvenivano l’uno contro l’altro, fui colpito in un occhio da
una barchetta appuntita, rischiando di perderlo per sempre.
Morale: la cultura della sicurezza era ancora di là da venire.
A causa della decisione di trasferirci in campagna, la frequenza
in quarta elementare subisce un cambiamento radicale. Siamo nei
primi anni cinquanta. Il lavoro scarseggia e la miseria è
palpabile negli strati più umili della popolazione; il lavoro lo
si cerca ovunque, anche in regioni lontane. Si assiste,
pertanto, a una ripresa massiccia dell’emigrazione verso le
città del Nord. Anche da Miglionico partono decine di persone.
Un fratello di mio padre, a capo di una famiglia numerosa, non
sfugge all’ingrato destino. Vende quel poco che possiede e si
trasferisce, con moglie e figli, in una città del Piemonte.
Con loro parte la più piccola delle mie sorelle. I miei
genitori, indebitandosi, acquistano un piccolo uliveto
confinante col nostro. Si forma così una piccola azienda,
capace, in prospettiva, di sostenere la famiglia. Per estinguere
il debito, però, occorrerà lavorare sodo. Con i contributi dello
Stato, riusciamo in poco tempo a costruire una modesta casa in
campagna, dove si trasferisce tutta la famiglia.
Inizia per me, e per mio fratello, un periodo di grandi
sacrifici e di estreme privazioni. Per frequentare la quarta,
bisognava recarsi ogni giorno in paese e fare, a piedi, sei
chilometri, tre all’andata, tre al ritorno.. La stessa sorte
toccò a un bambino delle nostra stessa età, la cui famiglia
viveva poco distante. Di buon mattino, prima di raggiungere la
rotabile sovrastante, occorreva inerpicarsi per una stradina in
salita, lunga oltre mezzo chilometro. La cartella di tela a
tracolla, il berretto di incerata calcato sulla nuca, gli
scarponi di cuoio bianco di Sorrento – le sorrentine – e via di
corsa verso il paese. Col bel tempo tutto procedeva nel miglior
dei modi. Nei giorni di pioggia e vento, il disagio era enorme,
si arrivava a scuola intirizziti e bagnati come pulcini. Con un
solo ombrello dovevamo ripararci in due.
L’aula che ci ospitava, si trovava all’esterno del vecchio
convento, adiacente alla chiesa del Crocefisso, situata a piano
terra e senza servizi igienici; per i bisogni si doveva
rientrare nell’edificio; il più delle volte, senza essere visti,
dietro i muri sottostanti. Era una classe mista di oltre trenta
alunni. Il maestro, un bell’uomo sulla quarantina, con un
grazioso pizzetto, ai nostri occhi, appariva straordinariamente
simpatico. Con una vecchia motocicletta, veniva ogni giorno da
Matera.
Il buon uomo aveva tutta la voglia di arrivare puntuale in
servizio, ma spesso giungeva con qualche mezz’ora di ritardo, e
forse più: colpa del mezzo, non pienamente efficiente,ma non
solo. Durante l’ultima guerra, come pilota di aerei, aveva
subito una brutta ferita al capo che gli procurava ancora molte
sofferenze e non gli permetteva il massimo della puntualità.
L’entusiasmo per il lavoro gli dava una tale carica, che
riusciva a farsi perdonare i ritardi e a conquistare la stima e
l’affetto di tutti.
Ci narrava, talvolta, le sue esperienze di vita militare, per lo
più a bordo di aerei traballanti e rumorosi; di voli notturni o
di virate improvvise che incantavano tutta la classe. Usava un
metodo d’insegnamento davvero impensabile per quei tempi. Ci
divideva in gruppi di apprendimento, in modo che i più bravi
aiutassero i meno capaci. Spesso ci conduceva nelle botteghe
artigiane per farci apprezzare l’importanza del lavoro.
L’esperienza più bella, per sua iniziativa, si ebbe con
l’allestimento di una recita teatrale che coinvolse non solo la
nostra, ma diverse altre classi. Dopo alcune settimane di
preparazione, anche in orario extrascolastico, il saggio finale
si tenne nei locali del vecchio cinema, alla presenza di
genitori e autorità cittadine. Mio fratello ed io facemmo parte
del coro. Il ritornello del “Vecchio scarpone”, ancora mi
rimbomba nelle orecchie. Ebbe un tale successo che se ne parlò
in giro per parecchio tempo. Si chiamava Peppino Spera. E’
scomparso pochi anni fa. Il ricordo del maestro Spera è rimasto
per sempre nel cuore dei suoi scolari.
Siamo giunti, intanto, in quinta classe. Con il nostro terreno,
confinava la piccola azienda del Direttore Didattico, dott.
Michele Santarcangelo, originario di Miglionico, ma residente a
Matera. Quell’anno, era il 1953, giunse da Salandra una numerosa
famiglia di mezzadri che si apprestava a prendersi cura dei suoi
terreni. Era composta, oltre che dagli adulti, da quattro minori
in età scolare. Il Direttore si adoperò subito per far istituire
una scuola in uno dei suoi locali. Si raggiunsero facilmente
undici alunni, sufficienti per formare una pluriclasse. Infatti,
confluirono altri quattro bambini, figli di contadini che
vivevano a pochi chilometri di distanza, sulla strada per
Grottole. Con mio fratello, me stesso e l’altro vicino si
raggiunse, pertanto, il numero stabilito.
Iniziava un periodo di scolarizzazione che durerà oltre tre
anni. Non perché, con mio fratello, ripetemmo qualche classe, ma
perché non v’erano, allora, le possibilità economiche per
iscriversi alla scuola media di Matera. Frequentammo, di
seguito, la quinta, la sesta e la settima classe; così si
denominavano all’epoca. Per prima, ebbe l’incarico una
giovanissima maestra, di nome Antonietta Padula. Nei primi tempi
alloggiò nella nostra casa di campagna; in seguito trovò posto
in un piccolo locale adiacente all’aula. Era una ragazza
semplice, amabile, proveniente da un’umile famiglia di contadini
che abitava, come la maggior parte degli agricoltori, nelle case
dei Sassi di Matera.
Al primo anno d’insegnamento, si trovò subito ad affrontare una
pluriclasse che comprendeva alunni dalla prima alla quinta.
L’aula era stata arredata come meglio si poté. Di forma
rettangolare, appena sufficiente a contenere una decina di
vecchi banchi e una consunta lavagna portati dal paese. Non vi
erano altre suppellettili, oltre a quelle necessarie alla vita
della maestra: un lettino sistemato nello spazio antistante, una
piccola cucina a gas, un armadietto recuperato chissà dove.
L’insegnante, fresca di studi e con una formazione ancora
ispirata alla filosofia gentiliana, secondo cui “il metodo è il
maestro”, doveva inventarsi le strategie didattiche più
estemporanee per seguire una classe con alunni di età diverse.
Per noi scolari la giornata iniziava ancor prima dell’inizio
delle lezioni. Bisognava alzarsi presto per fare una ripassata
degli argomenti studiati la sera precedente. Diveniva subito
buio, ed era faticoso studiare con la fioca luce del lume a
petrolio. I più puntuali eravamo noi che abitavamo vicino. Chi
veniva da lontano spesso arrivava con molto ritardo. Date le
oggettive difficoltà, la lezione si riduceva al minimo
indispensabile. I più piccoli, che avevano bisogno di più
attenzione per avviarsi a leggere e scrivere, si prendevano il
maggior tempo.
Dato che ne rimaneva poco, di quello che la maestra poteva
dedicare a ognuno, agli alunni più grandi, una volta ricevute le
consegne, non restava che proseguire da soli I risultati, però,
non furono del tutto negativi: noi grandi fummo spronati alla
conquista di una maggiore autonomia e a comportarci con più
responsabilità. Nei lunghi intervalli, tra un compito e l’altro,
l’attività prevalente era il “disegno spontaneo”, in altre
parole disegnare ossessivamente sempre gli stessi soggetti.
Per me significava tratteggiare all’infinito il volto di
Garibaldi o di Mazzini; ricopiare la figura di Napoleone,
raffigurato esultante su un bianco cavallo, o disegnare
un’infinità di altri animali. Iniziai a leggere “I Promessi
Sposi” che la maestra aveva con sé, ma non riuscii mai a finirlo
perché lungo e “noioso”, a causa delle infinite descrizioni di
luoghi e persone. Tra i pochi libri che riuscii a leggere per
intero, furono “I Segreti di Parigi” e “Il Conte di Montecristo”,
perché avvolti in quell’ quell’aria di mistero che colpiva la
mia fantasia.
Se questa, per noi scolari, era la tipica giornata scolastica,
come si svolgeva il resto del tempo? Da dedicare ai compiti
rimaneva ben poco. Vuoi perché l’oscurità, d’inverno, giungeva
in men che non si dica, e la tenue illuminazione del lume non
consentiva un’applicazione sufficiente, vuoi perché bisognava
aiutare i genitori nei lavori giornalieri. E’ da premettere che,
per soddisfare le esigenze della famiglia, bisognava produrre in
loco tutto quanto fosse necessario per alimentarsi. Non c’era
disponibilità sufficiente, né negozi a portata di mano per
acquistare il necessario per vivere. Necessitava produrre tutto
con le nostre mani, dai prodotti vegetali, fino a quelli
animali.
Si cominciava, in settembre, a piantare ogni genere di verdura:
rape, cicorie, cavolfiori, finocchi, patate, etc. che, dai primi
di dicembre, fino a maggio inoltrato, non cessavano di fornire
le loro specialità. Si faceva moltissimo ricorso anche alle
verdure selvatiche, che abbondavano copiosamente. Si produceva
ogni genere di legumi e di cereali. Non mancavano le piante dei
carciofi, il cui prodotto si prestava a essere conservato,
sott’olio, per un anno intero. Sott’olio si conservavano anche i
lambascioni, che si raccoglievano facilmente nei terreni
incolti.
Nei mesi estivi era d’obbligo la coltivazione di zucchine,
fagiolini, melanzane, peperoni e quant’altro. Per il bisogno di
frutta, non c’era alcun problema. La saggezza dei contadini non
conosceva imprevidenze. Usavano, diligentemente, dotare gli orti
di ogni tipo di alberi, in modo che fornissero i frutti da
maggio a dicembre: le mele maggioline, le ciliege, i fichi, ogni
specie d’uva, castagne, sorbole; insomma decine di tipi di
frutta, comprese le pere da conservare per i mesi invernali.
Il bisogno di proteine animali fu gradualmente soddisfatto in
pochi mesi. Si cominciò con l’allevare qualche coniglio, una
decina di galline, un maiale, un paio di caprette e, infine, una
mucca da latte, acquistata ancora in tenera età. Come si può
notare la famiglia era in grado di provvedere in piena autonomia
a tutte le necessità alimentari. Per le altre spese, il
vestiario, le tasse, l’acquisto di strumenti di lavoro e molto
altro, bisognava alienare gran parte della produzione di olive,
di fichi secchi, di qualche quintale di mandorle e il grano
proveniente da alcuni ettari di terreno seminativo.
Per produrre tutto questo occorreva, evidentemente, molta
manodopera oltre a quella dei genitori. Era necessario un aiuto
supplementare. Mio fratello ed io dovemmo ben presto adattarci
alla coltura dei campi e alla vigilanza delle bestie. Non che i
nostri genitori avessero voglia di sottoporci a fatiche estreme,
ma era inevitabile dare un apporto sostanziale alla produzione
dei beni per la famiglia. Tranne qualche lavoro richiedente
personale esperto, come la potatura degli ulivi, l’innesto delle
viti, la macellazione annuale del maiale, tutto il resto era a
carico di tutti i suoi membri. A noi ragazzi, qualche volta
anche da soli, toccava portare gli animali al pascolo,
raccogliere i vari prodotti, zappare la vigna. Quanto tempo
rimaneva per studiare? Poco o niente.
Al termine dell’anno scolastico iniziava, per me e mio fratello,
un supplemento di lavoro. Allo spuntare dell’alba si cominciava
col badare alle bestie, curare la vigna, raccogliere i frutti. I
miei genitori, preoccupati di non farci esporre troppo al sole,
non appena i raggi si facevano infuocati, ci facevano smettere
per consumare insieme la colazione, a base di “cialledda
fredda”, al riparo sotto un fresco pergolato, accompagnati dal
canto monotono delle cicale. Mia madre subito dopo, cominciava a
pensare al pranzo. Si alternavano orecchiette, “capunt’”, patate
e zucchine, melanzane ripiene, carciofi, pasta e legumi, le
verdure più varie, insomma tutto ciò che la terra offriva. Non
mancava mai il piatto delle lumache che nei mesi estivi
abbondavano nei canneti.
Per me e per mio fratello era il periodo più bello. Dopo qualche
ora di sonno, mi rintanavo nell’angolo più fresco della casa e
mi dedicavo alla lettura. Libri per ragazzi che “rifilavo” a mio
nipote, libri in prestito da amici e conoscenti; l’Intrepido,
fumetto che i miei compravano per noi ogni settimana; tutto
quello che riuscivo a procurarmi con gli stratagemmi più vari:
romanzi di “Sogno”, il Grand’hotel, la settimana enigmistica.
Nel primo pomeriggio si consumava il pasto e si tornava al
lavoro. Con la temperatura che diveniva sempre più fresca, era
un piacere dedicarvisi. Si smetteva solo quando lo stridio dei
grilli annunciava la fine del giorno. Si riponevano gli
attrezzi, si sistemavano gli animali e si andava a cena. Si era
d’estate e il tempo passava velocemente. Cascavamo tutti dal
sonno e bisognava andare subito a letto perché l’alba non si
sarebbe fatta attendere.
Erano davvero anni difficili per tutti. Pochissimi si potevano
permettere una vacanza; il mare lo si guardava solo in
cartolina. Di viaggi e gite, neanche a parlarne. Per molti la
vacanza consisteva nel trasferirsi, nel mese di settembre, in
campagna con tutta la famiglia. In estate la festa più attesa
era la sagra della Porticella. La festa si svolgeva – e si
svolge tutt’ora – nella seconda domenica di settembre, in una
chiesetta a pochi chilometri dal paese. Tutti si recavano sul
posto, con i mezzi più disparati - a piedi, con asini, muli, in
bicicletta, i più abbienti in calessino - per assistere alla
messa e alla processione.
Quest’ultima compiva un lungo giro nell’ampia radura antistante
e terminava col la messa dinanzi alla chiesa. Per noi ragazzi
era un’occasione di grande divertimento. Aspettavamo quel giorno
in trepida attesa. A pranzo si usavano preparare polli ripieni –
a noi ragazzi toccavano solo teste, ali e piedi - orecchiette al
sugo di pomodoro fresco, e tutto quello che si conservava per
l’occorrenza. La mamma, già dal giorno prima lavava e stirava le
usurate camicie bianche, col ferro a carbone.. Le scarpe, in
mancanza del lucido adatto, si tingevano con i residui di fumo
del camino.
Appena finito il pasto, si partiva con la gioia nel cuore. Tutto
il contado, in un unico drappello, partiva di gran carriera. Per
strada, un tratturo che, all’occorrenza, il comune provvedeva a
far spianare, si formava una lunga fiumana di gente festosa. Per
noi ragazzi, il divertimento maggiore consisteva in una
scorpacciata di derrate alimentari che abbondavano sulle
bancarelle di venditori improvvisati: noccioline americane,
castagne “del prete”, “gazzose”, lupini e mandorle tostate. Per
un altro giorno di baldoria, bisognava attendere l’anno
successivo.
Apro un’altra parentesi per descrivere un avvenimento cui
avevamo partecipato fin da piccoli: la raccolta del grano. Per
l’occasione tutta la famiglia si trasferiva in un podere ai
confini col territorio di Grottole. Dal grano provenivano i
proventi più cospicui per le necessità maggiori. Erano gli anni
a cavallo tra la mietitura tradizionale e l’uso delle prime
mietitrici. L’ultimo anno che si mieté a mano, lo ricordo con
grande nostalgia. Gli uomini che formavano la “paranza”, armati
solo di falci affilate, il cappello di paglia calato sulla nuca,
piegati su se stessi, dalla mattina all’alba, col solo
intervallo di mezzogiorno, procedevano compatti al taglio dei
lunghi steli di grano. Grondanti di sudore, ma veloci nelle
bracciate, gridavano e cantavano per darsi coraggio e vigore.
Noi ragazzi badavamo a porgergli, a brevi intervalli, l’acqua
fresca che attingevamo dal pozzo. Con l’acqua si offriva del
buon vino, tenuto fresco in un barilotto di legno, “lu
iascariedd”, che serviva a lenire la fatica. A sera, dopo una
giornata di fatica, tutti insieme, alla fioca luce delle lampade
a petrolio, sul piazzale antistante ai locali della masseria, ci
si raccoglieva intorno a tavoli messi su alla meglio e si
consumava la cena, quanto di meglio il “padrone” poteva offrire:
enormi piatti di tagliatelle preparate a mano da mia madre,
fumanti frittate di zucchine appena raccolte, peperoni e
baccalà, fritti in quantità.
Non mancavano salsicce, ventresche, formaggio, pane a volontà.
In cerchio, si prendeva il cibo dagli “spasoni”, nei quali
ognuno si ritagliava l’angolo da cui attingere. Il vino la
faceva da padrone. I racconti di episodi divertenti allietavano
la serata. Noi ragazzi cascavamo dal sonno ed eravamo i primi a
stenderci sui duri sacchi di paglia. Al mattino ci volevano
davvero le cannonate per svegliarci. I mietitori dormivano nei
posti più impensati, o al chiaro di luna.
Terminata la mietitura, si procedeva ad ammassare i covoni in
un’unica grande bica. Fino all’anno appena descritto, la
battitura delle messi si praticava col vecchio sistema della
“girandola” delle bestie: due muli maschi avanti, una femmina
dietro. Il metodo richiedeva una sequenza di operazioni
consolidate attraverso i secoli.
Per prima cosa bisognava individuare una zona idonea, vicino ai
caseggiati e molto ventilata. Se ne circoscriveva una parte, a
forma di cerchio, e si proseguiva col bagnarla e batterla più
volte, per rendere il terreno duro e compatto. L’aia era pronta.
Sparsa nella pista la quantità sufficiente dei fastelli del
grano, vi si facevano entrare le bestie, opportunamente bendate
per evitar loro dei capogiri, e la girandola cominciava. Al
centro mio padre, o chi per lui, spronava gli animali a girare
intorno. All’inizio si procedeva a rilento, per le difficoltà
che incontravano i muli nel superare gli ostacoli.
Man mano che l’andatura aumentava, era necessario che chi
guidava l’azione, si mettesse a cantare di buona lena per
sostenere il ritmo dei quadrupedi. Qualche volta mio padre
permetteva a noi ragazzi di provare a condurre la “giostra”, con
quanto divertimento e gioia da parte nostra. L’operazione
richiedeva non meno di due o tre ore, fino a quando gli steli si
riducevano in paglia, e le spighe liberavano tutti i chicchi del
grano.
Seguiva la fase della separazione del frumento dalla paglia. Con
grandi forconi, si sollevavano, controvento, mucchi di paglia e
grano, in modo che la pula volasse via e il grano ricadesse sul
terreno. Si era fortunati se la giornata riusciva ventosa;
altrimenti occorreva un bel po’ di tempo, prima che si potesse
ricominciare con una nuova pestatura. Il lavoro terminava col
setacciamento e la raccolta del grano in capienti sacchi di
iuta. Tutta l’operazione, in genere, si svolgeva per tutto il
mese di luglio e, secondo le condizioni atmosferiche, anche
oltre. Non appena si diffusero le nuove macchine, il vecchio
sistema fu completamente abbandonato. Sorsero nuovi imprenditori
che, acquistate le prime trebbiatrici, si misero al servizio
degli agricoltori.
Ahimè, la tecnologia era ancora imperfetta, e la difficoltà di
far giungere i mezzi nei luoghi più impervi creò non pochi
inconvenienti. Un piccolo incidente si avvenne proprio nel
nostro terreno. Una trebbiatrice, tirata da quattro buoi
nerboruti, mentre si dirigeva verso la nostra masseria, a causa
di un dislivello della carreggiata, si rovesciò su se stessa e
provocò la morte di uno degli animali. Di là delle prime
difficoltà, la meccanica dei mezzi fu presto perfezionata. Ai
buoi subentrarono i trattori, le trebbiatrici divennero sempre
più efficienti e le moderne mietitrebbie rivoluzionarono
completamente i sistemi di raccolta delle messi.
L’evoluzione della tecnica ha permesso di sottrarre l’uomo dalla
fatica, ma lo stato d’animo e l’atmosfera di grande socialità
che si creava intorno a quegli eventi, non si ripeteranno più.
Era un concorso di uomini e donne, impegnati nell’impresa di
procurare un alimento vitale per l’uomo, in un clima festoso e
sereno. Gli uomini, coperti di pula che fuoriusciva dalle
macchine, non smettevano di conservare il buonumore, soddisfatti
per il raccolto andato a buon fine; le donne facevano a gara per
cucinare il meglio delle loro specialità e fornire di continuo
acqua fresca, appena attinta dal pozzo, agli operatori
accaldati.
Nel momento del pranzo e della cena, si rinnovavano le serene
atmosfere che abbiamo visto ripetersi nelle operazioni della
mietitura e trebbiatura tradizionali; era un susseguirsi di
scambi di battute e di avventure da raccontare. Noi ragazzi non
perdevamo una sola parola di quei racconti. Tra un bicchiere e
l’altro, si finiva a notte inoltrata. I giacigli si ricavavano
su pagliericci improvvisati, o sotto le stelle Per noi bambini
non v’era nulla di meglio per fare esperienze indimenticabili.
Non temevamo di avvicinarci alle macchine e di inzupparci i
capelli di pula. I genitori, opportunamente, avevano badato a
farci rapare a zero. Il divertimento maggiore era tuffarci nel
fienile dove era raccolta la paglia per alimentare gli animali
d’inverno.
Così passavano le estati, fino a quando il terreno fu ceduto in
fitto. A questo punto inizia il secondo anno di scuola rurale.
Il nuovo maestro, il compianto Pino Mercurio, è anch’egli alla
prima esperienza d’insegnamento. Mio fratello ed io, superati
gli esami di quinta, ci iscriviamo alla sesta classe. Forse per
assicurare un numero sufficiente di alunni, o per chissà quale
motivo, ci fu garantita la validità istituzionale delle classi
successive alla quinta. Nonostante la buona volontà del maestro,
l’esperimento fu alquanto deludente. Furono anni ripetitivi e
noiosi. Non esisteva alcuna forma di programmazione, né di
contenuti, né di metodi, che giustificassero l’innalzamento
degli anni post-elementari. Tutto si ridusse a ripetere
all’infinito i programmi della quinta.
Il “povero” maestro, a inizio di carriera e con le difficoltà
proprie della pluriclasse, non poté certamente fare miracoli.
Veniva a scuola in bicicletta. Nei giorni freddi e piovosi, non
sempre riusciva a rispettare l’orario, ma faceva in modo da
rimediare ai ritardi, col fermarsi qualche tempo più del dovuto.
Spesso e volentieri – per la nostra gioia – ci esortava ad
aiutare i più piccoli. Senza saperlo, si applicava la moderna
didattica del “cooperative learning”. Tutto sommato, l’opera del
maestro fu positiva per tutti, compresi i due alunni di prima
classe, tra cui un mio nipote di Matera, che riuscirono a
conseguire risultati più che sufficienti nella lettura e nella
scrittura.
Solo un paio di volte, in tre anni, ci fu la visita del
Direttore. Era un uomo sulla cinquantina, di media statura e
piuttosto robusto; dall’aspetto burbero e severo, ma di una tale
bontà d’animo, da rimanere per sempre nei nostri ricordi più
belli. Si chiamava Giovanni Agneta. Poiché non possedeva la
patente di guida, veniva da Ferrandina con i mezzi più diversi:
una macchina a noleggio, o accompagnato da parenti o amici.
L’anno successivo ebbe l’incarico il maestro Filippo Montemurro.
Anch’egli in bicicletta. Col cattivo tempo anche a piedi. Era un
maestro molto stimato in paese. I risultati, date le immutate
condizioni della scuola, non furono molto diversi. Senza
programmi ben definiti e col poco tempo da dedicarci,non poté
aggiungere granché alle nostre conoscenze – mi riferisco agli
alunni della settima classe. Premesso che il rispetto e la stima
non sono mai venuti meno, due ricordi di lui mi affiorano ancora
nella mente. Il primo rivela un atteggiamento di scetticismo nei
confronti della scienza.
Era l’anno del primo lancio sovietico nello spazio, per
preparare il futuro sbarco dell’uomo sulla luna. Forse per
esprimere un’opinione originale, il maestro affermò con estrema
sicurezza: << Loro andranno sulla luna e io sarò papa >>.Il
secondo episodio mi riguarda piuttosto da vicino e ne sento
ancora “fisicamente” le conseguenze. Dopo aver allestito, per
l’avvicinarsi del Natale, il presepe in un angolo dell’aula, di
fronte a tutta la classe, me ne uscii con un’espressione
alquanto spiritosa: quant’è brutto! Senza rendermi conto della
provenienza e della rapidità del gesto, mi si stampò in faccia
un sonoro ceffone che è rimasto indenne nella memoria.
Non nutro alcun rancore nei confronti del maestro, però il segno
è rimasto indelebile nella mia mente, forse perché fu l’unico
che ho collezionato in tutta la mia carriera scolastica. Il buon
maestro, costretto dalla mia provocazione, e dai metodi
educativi all’epoca in vigore, non poté fare a meno di dare un
esempio di “pedagogical correct” agli altri scolari. A suo
merito, però, devo riferire un altro episodio che contribuì a
farmi perdonare il suo gesto.
A me che non ho mai posseduto una bicicletta, permise di
utilizzare la sua durante gli intervalli e alla fine delle
attività scolastiche. Ogni giorno, prima di scoccare l’orario di
chiusura, mi autorizzava a portare la bicicletta in cima alla
rotabile. Io approfittavo per fare delle corse pazzesche che
compensavano la fatica sopportata per spingerla sopra. Dopo
qualche anno il maestro si traferì a Bari con la famiglia, dove
completò la sua carriera d’insegnante. E’ mancato pochi anni fa.
L’ultimo anno, in pratica l’ottavo, fu utilizzato esclusivamente
per prepararci agli esami di ammissione alla scuola Media. Ci
preparò il maestro Mercurio che raggiungevamo ogni giorno in
paese. Fummo promossi con ottimi voti, in attesa di frequentare,
l’anno successivo, le scuole medie di Matera. Quale bilancio
trarre da quei “tre anni buttati al vento”? Persi senz’altro, ma
ricchi di tante esperienze positive. Provammo dal vivo la dura
fatica dei campi nel rapporto edificante con le persone più
umili. La mattina a scuola; al pomeriggio, di compiti a casa
nemmeno a parlarne. Eravamo obbligati e fieri di partecipare
alla coltivazione della terra e alla cura degli animali.
Talvolta aiutavo mio padre ad arare i campi; mio fratello curava
maggiormente le bestie; insieme a mia madre, entrambi zappavamo
la vigna. Tutti si doveva portare avanti la “baracca”. Se tutto
quello che la terra produceva, bastava a soddisfare i bisogni
alimentari della famiglia, ben altro occorreva per assicurarle
un minimo di vita dignitosa. I prodotti che eccedevano lo
stretto necessario per vivere, bisognava raccoglierli, curarli e
venderli. C’era bisogno di denaro per acquistare indumenti,
strumenti di lavoro, medicine, pagare i debiti, etc.
Per tutta l’estate, e non solo, si era tutti impegnati nella
raccolta dei frutti. S’iniziava subito, in luglio, con la
raccolta delle mandorle: con delle lunghe verghe, si battevano i
rami in modo che cadessero per terra; si raccoglievano in sacchi
di canapa e portate al riparo. A sera, seduti in cerchio,
liberavamo i gusci legnosi dal mallo, per esporle, qualche
giorno, al sole e farle asciugare. L’operazione durava dai
quindici ai venti giorni, secondo le annate. Si riusciva a
venderne non più di 4/5 quintali per anno.
Terminata quella delle mandorle, iniziava la raccolta dei fichi.
La più lunga e impegnativa perché si protraeva per tutto agosto
e settembre. Si raccoglievano man mano che maturavano e
asciugavano sulla pianta. Una volta colti, bisognava spanderli
sugli appositi “cannizzi” e lasciarli essiccare al sole. La
parte migliore si farciva con le mandorle;fatta indorare nel
forno, e venduta. Di quella rimanente, una quota si vendeva
semplicemente essiccata, la più scadente, indorata nel forno e
ceduta ai commercianti con meno profitto.
Ovviamente, non tutto era dato via; la famiglia se ne riservava
una buona quantità, per la merenda quotidiana. Per la fatica che
richiedeva e per il lungo protrarsi, la raccolta dei fichi era
alquanto uggiosa e laboriosa. Due mesi, e forse più, di lavoro
duro. Finita la campagna dei fichi, subito un'altra dura fatica
si profilava all’orizzonte: la raccolta delle olive. S’iniziava
col raccogliere quelle che cadevano a terra spontaneamente.
Secondo le condizioni del tempo, l’operazione andava ripetuta
più volte. Non appena se ne raccoglieva una quantità
sufficiente, si provvedeva a venderle, allo scopo di racimolare
qualcosa per acquistare libri ,quaderni, pennini e astucci,
cartelle di cartone pressato per la scuola.
La raccolta vera e propria iniziava intorno alla metà di
novembre e proseguiva, talvolta, fino ai primi di gennaio; non
perché la quantità fosse esuberante, solo perché si doveva
risparmiare il costo della manodopera esterna. La frequenza
scolastica ovviamente si riduceva ai soli giorni di cattivo
tempo. Del resto non serviva quasi a niente ripetere
all’infinito gli stessi programmi. Nei giorni pieni di sole era
un piacere salire sugli alberi e sfilare dai rametti il prezioso
frutto. Terminata la sfilatura, si raccoglievano le olive dalle
coperte e si riempivano i sacchi. Così per giorni. Ci si
concedeva una pausa solo a Natale e Capodanno.
Alla fatica del giorno, per me, andava aggiunto un altro
impegno. Il supplemento di lavoro non mi dispiaceva per niente,
anzi lo accettavo volentieri. Ogni volta che se ne raccoglieva
una quantità sufficiente per un carico di mulo, bisognava
portarla al trappeto per la molitura. Avevo dodici anni. Ero già
capace di scaricare da solo i sacchi, liberare la bestia dai
vari orpelli e sistemarla nella stalla per la notte. Alla base
della mia infinita disponibilità a sottopormi a una fatica
supplementare, c’era un obiettivo ben preciso: sfruttare
l’occasione per andare, la sera, al cinema. La campagna delle
olive coincideva, quindi, con quella del cinema.
Era tanto grande la mia passione per il cinematografo, da farmi
superare qualsiasi fatica. Fu quello il periodo dei grandi film
popolari: La Corona di ferro, Achtung! Banditi! Il Terzo uomo,
interpretato dal grande Andrea Checchi. Quelli che, attiravano
una gran massa di gente, erano i capolavori di Raffaello
Matarazzo. Cinema dai risvolti drammatici e commoventi: I figli
di nessuno, Catene, Tormento, L’Angelo bianco. Interpreti
indimenticabili, Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson; tanto bravi da
indurre tutta la platea in lacrime.
Talvolta in paese si fermava per intere settimane una piccola
compagnia di teatro. Per passare una serata in allegria, la
gente accorreva in massa: famiglie al completo, fidanzatini con
genitori al seguito, intere comitive di giovani. Del resto, non
vi erano altre opportunità ricreative che ci si potevano
permettere. Non erano compagnie di alto livello, e il costo del
biglietto era alla portata di tutti. Pur potendo permettermi
qualche soldo, io non pagavo quasi mai. Primo perché il padrone
del cinema era un parente-zio acquisito;secondo perché il costo
del biglietto me lo guadagnavo col mio “lavoro”. Prima e durante
lo spettacolo, giravo per la platea a vendere caramelle, gassose
e bustine di ceci arrostiti. Il ricavato andava tutto alla
figlia del proprietario.
Era una festa collettiva. Se lo spettacolo era piaciuto, tutti
andavano via soddisfatti; se era stato deludente, le
imprecazioni si sprecavano: “abbiamo buttato 50 lire; ma che
schifezza hanno fatto venire”. Senza parlare delle proteste che
si levavano dalla platea quando lo spettacolo non iniziava in
tempo o, cosa che spesso accadeva, si verificava un’interruzione
della pellicola. Tutti a gridare: “Orario! Orario”! E fischi a
non finire. La sala era stata ricavata dal refettorio del
vecchio convento. Non era riscaldata e, per giunta piena di
spifferi; col bel tempo non c’erano problemi; nei giorni duri
dell’inverno, il freddo era insopportabile. Molti si portavano
da casa coperte di lana, vecchi mantelli e sciarponi pesanti dei
nonni.
Che tempi! Quanto entusiasmo per niente e quanta spensierata
baldoria! A fine spettacolo, di corsa a casa. Davo un’ultima
manciata di paglia al mulo e, di filato, a letto; ero solo.
Talvolta, se il film conteneva qualche scena di paura, mi
rintanavo nel fondo del letto e, per “precauzione, ” recitavo un
Padre Nostro. L’indomani mattina, alla tenue luce dell’alba,
bisognava levarsi e andare. In groppa al mulo, col berretto
calato e la “sciarpetta” ben stretta sul viso; ma contento. Il
futuro era tutto davanti.
Appena in campagna, si riprendeva il lavoro. Nelle giornate di
sole, tutto il vicinato si riempiva di voci festanti. Le grida
si propagavano da un capo all’altro della contrada per
chiamarsi, “sfottersi” e comunicarsi le notizie più frivole. In
un podere vicino, un simpatico e fervente comunista non smetteva
mai di cantare “Bandiera rossa, la trionferà”. A furia di
sentirla per giorni interi, mi rimbomba ancora oggi nelle
orecchie. Non nascondo che, quelle prime esperienze hanno non
poco influito sulle mie future scelte politiche.
Spesso, nel nostro podere, si incontravano braccianti e
contadini della zona. Tra le tante discussioni, si finiva sempre
per protestare contro il governo “infame”, contro i
“forchettoni” e gli sfruttatori della classe operaia. Il motto
più diffuso era: “addav’nì Baffon’”. Qualche anno prima mi era
capitato di assistere a un episodio carico di tensione. Un
gruppo di uomini cercò, nottetempo, riparo nel nostro casolare
per sfuggire alla cattura dei carabinieri. Erano alcuni dei
tanti braccianti che partecipavano all’occupazione dei terreni
demaniali. Erano episodi che si ripetevano di frequente in tutto
il territorio lucano.
Il più grave si consumò a Montescaglioso con l’uccisione di
Giuseppe Novello, nella notte del 14 dicembre 1949. L’atmosfera
di mistero e di oscuri presagi lasciò nel mio animo una traccia
indelebile delle ingiustizie e delle vessazioni che subiva da
sempre il popolo lucano. Quelle esperienze dolorose e
drammatiche hanno non poco incoraggiato il mio impegno civile in
difesa dei più deboli e per l’emancipazione delle classi sociali
più emarginate.
Col passare degli anni, molto è cambiato da allora. Le
condizioni di vita sono decisamente evolute. La scolarità si è
diffusa a ogni livello; si sono moltiplicati i mezzi di
informazione; sono migliorati l’alimentazione, l’abbigliamento e
le occasioni di svago. Molti figli di contadini e braccianti
sono divenuti professionisti affermati. Merito di quei governi
che hanno saputo accogliere i bisogni reali del popolo
esasperato., che rivendicava a gran voce il riscatto dalla
povertà. Merito anche della lotta di quei partiti che avevano
come obiettivo prioritario l’uguaglianza, la giustizia, la
democrazia. Merito soprattutto del popolo intero che, negli anni
sessanta, ha lottato con tutte le sue forze, per rivendicare lo
sfruttamento del metano in val Basento.
Tale sfruttamento ha permesso la costruzione di due importanti
industrie – la Pozzi e l’ANIC – le quali, nei decenni passati,
hanno innescato un volano di progresso economico e sociale per
l’intera Basilicata. Tutto risolto, dunque? Nient’affatto. Le
industrie si sono chiuse e il progresso si è fermato. Le
disuguaglianze si sono accentuate e le Istituzioni sono
diventate autoreferenti. Il lavoro, per molti, rischia di
rimanere solo una chimera. Che fare? Non è questo il luogo di
affrontare il problema. Una considerazione la voglio comunque
fare. Anche quelle forze politiche nelle quali abbiamo riposto
tutte le nostre speranze, che promettevano giustizia,
uguaglianza, lavoro per tutti, sembrano cadute nel vortice degli
interessi privati.
La lotta per il potere, la corruzione generalizzata,
l’arrendersi ai potenti gli hanno fatto smarrire l’unico
obiettivo da perseguire: il bene del popolo. E’ una
constatazione amara ma, doverosa. Se quei contadini e
braccianti, che versarono il sangue, per strappare i propri
diritti, potessero rendersi conto dello sfasciume attuale,
griderebbero al tradimento. La speranza di una vita migliore mi
dava, allora, la forza e il coraggio di affrontare i sacrifici
che mi si prospettavano davanti . Avevo una segreta aspirazione:
trasferirmi a Torino e farmi assumere come meccanico alla FIAT.
Era il massimo cui poter aspirare in quelle circostanze.
Terminata la raccolta delle olive, si tornava a scuola; solo
quando non c’era molto da fare. I giorni passavano col ritmo di
sempre. Non vi erano distrazioni alcune; tranne la lettura dei
fumetti e qualche libro procurato chissà dove, non c’era modo
d’informarsi su quanto stava accadendo nel mondo. L’unico
giornale che veniva spedito a mio padre, era il Bollettino del
Coltivatore, che divoravo in un attimo. Le notizie che
giungevano dall’esterno e che suscitavano qualche curiosità, si
riferivano ai piccoli fatti accaduti in paese o nei comuni
vicini: hanno rubato le pecore dalla tale masseria; un contadino
è caduto dall’albero; a Grottole un pastore è stato azzannato da
un cinghiale, e via di questo passo.
Nelle sere buie d’inverno qualcosa di bello succedeva. Si era
soliti riunirsi con i vicini nella nostra dimora, per tenersi un
po’ di compagnia accanto al fuoco del camino. Si parlava di
esperienze passate, di problemi da affrontare,di annate andate
male. Ma c’era qualcosa che incuriosiva e faceva volare la
fantasia di noi ragazzi. Due simpatici “contastorie”, ciascuno a
modo suo, durante le visite, dimostravano tutta la loro perizia
nel raccontare le storie più accattivanti.
Ricordo i nomi. Gerardo Cirella, un vecchietto che viveva con la
moglie in un piccolo podere confinante col nostro; in una
casetta di pochi metri quadrati, ma sufficiente a ospitare due
umilissime persone. Non avevano altre esigenze che alimentarsi
con un tozzo di pane o una “pignatta” di legumi. L’altro
contastorie, Cosimo il “Leccese”– il cognome mi sfugge -
trasferitosi con la famiglia a Salandra, era approdato,
successivamente, nell’azienda di Santarcangelo, dov’era ubicata
la suola.
Erano poveri, ma sapevano comunicare emozioni. Avevano appreso
le storie, nella loro fanciullezza,da chissà quali altri
“artisti”. Cominciavano col suscitare la curiosità e
l’attenzione avvertendo i presenti di non farsi prendere dalla
paura che la storia poteva provocare. La frase iniziale, quella
con cui iniziano tutte le storie: c’era una volta. Le
espressioni che si ripetevano in quasi tutti i racconti: in una
notte buia e piena di vento… cammina, cammina… appare una luce
lontana…bussano alla porta, toc, toc. Ognuno terminava con la
solita chiusura: larga la fronte, stretta la vita, contate la
vostra che la mia è finita. Quanta fantasia e immaginazione
affollavano la nostra mente! I pensieri volavano nei paesi più
lontani e misteriosi.
La fonte della “conoscenza” non si limitava, però, all’ascolto
delle favole; spesso i presenti chiedevano a noi ragazzi di
leggere qualche passo della Bibbia, soprattutto del Nuovo
Testamento. Era un’edizione popolare, illustrata alla maniera
dei fumetti, recuperata chissà come, ma utile a tenere vivo il
sentimento religioso. Durante il giorno, il tempo era scandito
da una vecchia sveglia che non era mai a portata di mano; il
vero susseguirsi delle ore era dato dai “postali” della SITA
che, ad orari regolari, transitavano sulla rotabile.
Ci si alzava col passaggio del primo che andava verso Matera; si
desinava al suo ritorno; si cenava dopo l’ultimo transito.
Qualcosa cambiò quando mio cognato regalò una radio a transistor
a mio padre. Ben presto cominciammo a seguire i giornali radio,
le previsioni del tempo, i notiziari regionali. Fino a quando
non fu trasmesso quello della Basilicata, nei primi anni ’60,
ascoltavamo il notiziario pugliese, mandato subito dopo pranzo.
Alla fine andava in onda un noto programma, in dialetto barese,
che divertiva tutta la famiglia. S’intitolava “La Caravella”. I
protagonisti erano “Colin’ e Mariett’”, due popolari comici che
suscitavano tanta ilarità e simpatia. Un altro appuntamento,
molto atteso, era il Festival di Sanremo. Per tre lunghe serate,
in compagnia di tutto il vicinato, si ascoltavano, senza perdere
una nota, gli acuti del “Claudio nazionale” e le melodie della
“signora della canzone”, Nilla Pizzi.
Un evento molto vissuto nel mondo contadino, nei tempi a cavallo
tra i due conflitti mondiali, era la ricorrenza del Carnevale. A
sera, contadini e braccianti, dopo la fatica del giorno, si
mascheravano alla meno peggio e s’incamminavano verso il paese
per prendere parte alle sfilate collettive che duravano fino a
notte inoltrata. Al termine della baldoria, tra canti e balli al
suono della “cupa cupa”, si dava fuoco al pupazzo di carnevale.
In seguito la ricorrenza ha assunto forme di espressione
ispirate al dilagante consumismo, che non hanno nulla a che
vedere con la spontaneità, l’armonia e la spensieratezza di un
tempo
Non posso non accennare all’avvenimento più importante e diffuso
fin quasi ai nostri giorni. Tutti crescevano in famiglia almeno
un maiale, acquistato generalmente alla fiera di agosto, o di
ottobre. Quando l’animale, ben cibato, raggiungeva il massimo
del peso, si chiamavano i macellai per sopprimerlo. Aspettavamo
quel giorno con trepidazione indicibile. Per noi ragazzi era
l’avvenimento più atteso dell’anno, vuoi perché la cosa
suscitava un’eccitazione unica, vuoi perché finalmente si
cominciava a mangiare qualcosa di buono. Il boccone più
prelibato era il famoso “sanguinaccio”, una sorta di crema
dolciastra che si ricavava dal sangue del maiale subito dopo
avergli fatta la “festa”. Una leccornìa che durava un bel po’ di
giorni.
Il “rito” si svolgeva in questo modo: di buon mattino arrivava
l’esperto armato di coltellacci e seghe; quattro paia di braccia
robuste afferravano la bestia e la stendevano su un tavolaccio
inclinato verso il basso. Tra le urla disumane e i tentativi di
sfuggire alla presa, il “macellatore”, infilava il coltello
nella gola del malcapitato e lo rigirava, fino a quando non dava
più segni di vita. Il sangue, appena raccolto, era trattato per
non farlo aggrumare. Una volta che il maiale aveva esalato
l’ultimo respiro, si bagnava con acqua bollente per raschiargli
le setole.
Terminata questa prima operazione, l’animale era appeso a un
robusto chiodo e lasciato ad asciugare tutta la notte.
L’indomani tornava il macellaio per sezionarlo in mille parti.
Separava il lardo dalla ventresca, i prosciutti dalle parti meno
pregiate, e così di seguito. Del maiale non si buttava niente,
tutto era – ed è tuttora - utilizzabile. Allontanatisi gli
esperti, iniziava il lavoro di casa: salare le parti grasse,
tagliuzzare a mano la carne per farne salcicce e soppressate.
Quando tutto era ben sistemato, si passava a preparare il
sanguinaccio.
I lettori penseranno che, finalmente, iniziava un periodo di
scorpacciate per tutta la famiglia. Ahimè, non era proprio così.
Era pur vero che un assaggino toccava anche a noi di tutto quel
ben di Dio, ma la parte migliore prendeva un'altra direzione.
Una discreta quantità era venduta per racimolare un po’ di
denaro; il resto, tra soppressate e salsicce come da sempre è
accaduto che i migliori prodotti dei cafoni se li son gustati i
“galantuomini” - finiva, non retribuito, sulla tavola di lor
“signori”, con la scusa di aver prestato qualche piccolo
servigio alla famiglia.
La parte del leone la faceva il medico di famiglia. Era tanto
buono che non si pagava mai per le visite domiciliari. Le
migliori soppressate, le salcicce più curate erano destinate a
lui. Non bastavano, però. <<Commà…ho il desiderio di quelle
belle olive nere che sai curare con tanto amore>>. Pronto il
pacco delle olive al dottore. <<Commà…quel bel galluccio che mi
portasti il mese scorso è tanto piaciuto alla signora>>. Subito
due polli al dottore. I percochi più belli, i fichi secchi con
le mandorle, i grappoli dorati dell’uva “particolare”, le noci
saporite dell’orto, i carciofini sott’olio, il dottore tutto
gustava. Però, ti curava gratis! A noi ragazzi del “porco”
rimanevano solo il lardo, un po’ di ventresca e le cotiche.
Non ricordo che il bravo dottore sia mai venuto a farci visita
in campagna, in caso di malattia. I rimedi bisognava
procurarceli da soli. Per le ferite da taglio, si usava un
impacco di una varietà di cicoria campestre, capace di
rimarginare la ferita in pochissimi giorni; per il mal di
stomaco, si ricorreva a decotti di malva e di salvia; per la
febbre, camomilla e impacchi di acqua fredda. La settimana che
rimasi a letto per “l’asiatica”, feci una tale ingestione di
camomilla, da ricordarmela per tutta la vita. Bisognava star
bene per forza, e fare economia su tutto. Le calze, le maglie
per l’inverno le sferruzzava mia madre alla sera; i fazzoletti
per il naso li ricavava dalle camicie dismesse; i buchi nei
pantaloni li chiudeva con le toppe. Quando bisognava dismettere,
necessariamente, un indumento, aveva cura di recuperare tutti i
bottoni. Perfino il sapone sapeva fare in casa.
Meno male che ogni tanto arrivavano i pacchi dall’America, pieni
di biancheria dismessa dai parenti lontani. Sogno ancora una
cravatta, la prima che ho usato fino all’età giovanile. D’all’America
arrivavano anche riserve di alimenti – carne in scatola,
confezioni di burro, cioccolato, brodini – che, a merito delle
chiese cattoliche e protestanti, erano distribuite a chi ne
facesse richiesta. Il Piano Marshall mostrava i suoi effetti
migliori. Ho voluto dilungarmi in particolari perché si
potessero toccare quasi con mano le ristrettezze inenarrabili,
che la gran parte del popolo ha sopportato nel periodo appena
descritto.
La mia vita di “scolaro di campagna” volge così al termine.
Rimane da fare un cenno all’ultimo anno del triennio. Fu
utilizzato per preparare l’esame di ammissione. Come ho di sopra
premesso, ci preparò il maestro Mercurio, con ottimi risultati.
Eravamo pronti per la frequenza della scuola Media di Matera. Si
passò così dall’uso del pennino a “lampone” a quello della penna
stilografica. Le biro non erano ancora in commercio. Dalla prima
media, all’ultimo anno delle superiori siamo stati a casa di mia
sorella, a Matera. La scuola in campagna proseguì per altri due
anni, tenuta dalle insegnanti Fiorentino prima, e Margherita
Cancro, mia compagna in quarta elementare.
Come anticipato nella premessa, l’esperienza della scuola rurale
l’ho vissuta anche come insegnante. Terminato il servizio
militare, ebbi la nomina in ruolo in un plesso delle campagne di
Rotondella. Era l’anno 1970. Nei territori intorno c’erano altre
scuole rurali; a me toccò quella di S. Laura, situata a circa
6/7 chilometri dal paese. Il locale della scuola, di una ventina
di metri quadri, era stato adattato in una vecchia stalla.
alcuni banchi e una vecchia lavagna, gli unici sussidi
didattici. Era frequentata dai consueti undici alunni, il minimo
per tenere aperta la scuola. Senza servizi igienici. Per i
bisogni urgenti, solo per le femminucce, si era resa disponibile
una famiglia che abitava al piano di sopra.
Come in tutte le scuole simili, le classi andavano dalla prima
alla quinta. Io ero ai primi anni d’insegnamento e sentivo il
bisogno di acquisire al più presto una buona pratica didattica.
Mi detti subito da fare; fui fortunato ad avere quasi tutti gli
alunni provenienti da famiglie benestanti ed emancipate,
proprietarie di grandi aziende sparse nei dintorni. I ragazzi
erano tutti motivati e rispondevano positivamente agli stimoli
del maestro. Naturalmente l’attenzione maggiore la riservavo ai
due bambini della classe prima, perché i più grandi potevano
cavarsela anche da soli.
Grazie alla generosità di una famiglia che abitava nei pressi,
mi fu offerta la possibilità di alloggiare presso la propria
tenuta. Per qualche tempo, tornavo a casa solo alla fine della
settimana. Ben presto, però, il disagio e la noia mi assalirono,
e decisi di viaggiare ogni giorno. Avevo da poco acquistata la
prima Cinquecento. Partivo alle sette di mattina e tornavo a
casa alle tre del pomeriggio. Centoventi chilometri all’andata,
centoventi al ritorno. Per fortuna non mi annoiavo, perché a me
si aggregarono altre due colleghe che andavo a prendere e
riportare a Bernalda.
Devo confessare, però, che quella prima esperienza non fu
proprio esaltante, non per colpa mia, né per i disagi ch’essa
comportava; spesso ero “costretto” ad assentarmi per non brevi
periodi perché sollecitato da qualche superiore. Bisognava
favorire una supplente che aveva un bisogno estremo di lavorare.
Non vuol essere una critica nei confronti di alcuno, ma la
costatazione che, a quel tempo, la vita richiedeva il ricorso a
simili sotterfugi. In ogni modo l’anno scolastico terminò con la
soddisfazione di alunni e genitori.
Giunti al termine di questo lungo percorso, provo a fare un
bilancio della mia esperienza di vita e di alunno nella scuola
di campagna. Dal punto di vista dell’apprendimento, fino al
termine della classe quinta, non ho alcun rilievo da fare. Tutto
era proseguito con estrema regolarità e col massimo profitto,
per merito di Insegnanti bravi e capaci. Il triennio successivo,
per le ragioni che ho di sopra esposto, non dette alcun
risultato concreto. Fu solo una perdita di tempo e un ripetere,
fino alla noia, gli stessi argomenti; non per colpa degli
insegnanti, ripeto, ma a causa delle condizioni nelle quali
erano costretti a operare.
Un giudizio più articolato voglio riservarlo alle esperienze di
vita agreste che mio fratello ed io fummo costretti a fare. Il
contatto diretto con la natura e col mondo animale fu senza
dubbio salutare e proficuo. Nessuna conoscenza astratta avrebbe
potuto sostituirsi alle concrete esperienze sul “campo”.
L’apprendimento del perpetuarsi del ciclo naturale delle piante,
della nascita, della vita e del loro esaurirsi, non solo
aggiungeva nuove e importanti nozioni al nostro bagaglio
culturale, rappresentava, altresì, una preziosa occasione per
imparare ad amare e rispettare i beni che la natura offriva.
Con quanto interesse abbiamo appreso i modi con cui l’uomo
interagisce con la terra per farsi donare i suoi tesori! Mio
padre, con pazienza e competenza, ci descriveva i segreti più
riposti della natura: il meraviglioso e avvincente susseguirsi
delle stagioni, la cura che l’uomo deve alle piante,
l’alternanza della produzione del grano con i legumi; il periodo
di posa e raccolto di ogni varietà di verdura. Insomma tutto
quanto i contadini hanno appreso nel volgere dei secoli. Il
contatto con gli animali,che dovevamo nutrire e allevare, è
servito, inoltre, a fornirci ulteriori e preziosi elementi di
conoscenza. Nessun sapere teorico avrebbe potuto mai sostituire
l’esperienza che proveniva dal “vivere” diretto con loro.
La nascita, la vita e la morte, come per le piante, erano
oggetto di continue scoperte; a cominciare dalla meravigliosa
covata di pulcini che sbucava dalle uova dopo ventinove giorni
di cova; e finire con le modalità di fecondazione e nascita dei
vitelli, dei maiali, delle caprette, insomma degli animali
allevati nel nostro podere. Avevamo imparato a conoscere i loro
malanni e i modi per curarli. Da qui il sorgere di profondi
sentimenti di rispetto e di amore per l’ambiente e per le sue
creature. Non potrò mai dimenticare il dolore, fino alle
lacrime, che provai quando fummo costretti a vendere un mulo che
da decenni “viveva” con noi: il mulo che mi “portava” a cinema.
Per il colore fulvo del suo manto, lo chiamavamo Rossino. Era
docile, “affettuoso”, non dava mai segni d’irritazione; si
poteva cavalcare senza il minimo pericolo che potesse sgropparti
di dosso.
L’aver toccato con mano la miseria e le sofferenze immani che
uomini e donne sopportavano per strappare alla terra il frugale
nutrimento, non poteva che suscitare in me quegli stessi
sentimenti di umana comprensione per le condizioni di lavoro cui
è stata, ed è tuttora sottoposta, la classe operaia. Il lavoro,
dunque, e il rispetto assoluto che nutro per esso, è stato e
sarà sempre in cima ai miei pensieri. Non ho mai fatto
distinzione tra le diverse forme di lavoro. Per me tutti i
lavori hanno piena dignità umana e sociale. Iddio ha creato il
lavoro perché l’uomo potesse completare la sua opera di
creazione del mondo. Per questo assume per me anche una
componente divina.
Le mie esperienze lavorative, oltre a quelle vissute in proprio,
qualche volta si sono svolte in modi differenti e in luoghi
lontani. Durante i primi anni delle scuole medie, alla chiusura
dell’anno scolastico, tornavamo in campagna. La fatica non ci
faceva paura ma, per il desiderio di fare altre esperienze, di
varcare gli stretti confini del paese, al termine del terzo
anno, convinsi i miei genitori a lasciarmi andare a Vercelli. Lì
avrei potuto lavorare, per tutta l’estate, con mio cognato
ch’era titolare di un’impresa edile. Per ben due mesi fui preso
come garzone e cominciai a guadagnare qualche soldo. Avevo già
una discreta formazione in matematica e, spesso, mi “sfruttava”
come futuro contabile.
Per le vacanze successive, fino al diploma, scelsi un'altra
strada. Da Vercelli alle rive del lago Maggiore per cercare
lavoro come cameriere. Fui preso come barista in un ristorante
di Arona. L’anno dopo, i proprietari mi affidarono un incarico
di maggior prestigio: gestire il bar e assegnare le camere di un
piccolo albergo, a poca distanza dalla città. Grande fu la gioia
quando venne a trovarmi, a sorpresa, mio fratello. Al pomeriggio
facemmo un giro per il paese per visitare i luoghi più belli
della città. Passammo una giornata fantastica.
Indimenticabili furono anche le esperienze che ebbi modo di fare
in quelle estati. Durante la giornata libera, con i camionisti
con i quali avevo stretto amicizia, spesso raggiungevo la riva
svizzera del lago, da Ascona fino a Locarno. Oltre a conoscere
tantissime persone, l’esperienza più autentica si realizzò col
lavoro e la possibilità di guadagnare un bel po’ di soldi. Non
dimenticherò mai la soddisfazione che provavo quando, di ritorno
a casa, consegnavo tutto il “malloppo” a mia madre; quel denaro,
così orgogliosamente guadagnato, serviva a coprire interamente
il costo dei libri scolastici.
Qualche considerazione finale. Gli anni vissuti in quella remota
contrada hanno contribuito non poco alla nostra formazione umana
e culturale, ma un rimpianto è rimasto per sempre nel mio animo:
aver sacrificato, negli anni più belli dell’adolescenza, il
bisogno di rapporti sociali più frequenti con i nostri pari di
età. L’unico compagno di gioco, nei pochi momenti di libertà,
era mio fratello. Erano giochi per modo di dire: sfidarsi nella
corsa, arrampicarsi in cima a un albero, nascondersi e
ritrovarsi. Presto subentrava la noia e si tornava al lavoro.
Resta però la consolazione di aver vissuto un periodo della vita
in piena serenità, nell’amore e nell’affetto della famiglia, a
contatto straordinario con la natura. Mai più ho potuto gustare
il meraviglioso spettacolo che, nelle albe estive, offriva lo
spuntare del sole. Un tenue apparire all’orizzonte; poi mano
mano il cerchio di fuoco si ingrandiva per infondere calore a
tutte le creature. Rimaneva la speranza che il tempo avvenire
avrebbe esaudito tutte le nostre aspettative. Si saranno mai
avverate? Domenico Lascaro - Miglionico
28.03.2015.
.....................................................................................
Mimì e
la scuola
In campagna
Professoressa
Da campi Grazia Maria De Vincenzis
C’era una volta, nella campagna di
Masteropoli, un paesino della Lucania una famiglia numerosa: un
padre, una madre e dieci figli.
Essa viveva in una masseria che si ergeva su una collina ridente
circondata da campi con le messi che brillavano al sole
dell’estate. Era uno spettacolo meraviglioso vedere i contadini
che raccoglievano la paglia per formarne dei covoni, mentre la
trebbia avanzava, falciando le spighe d’oro sotto i raggi del
sole. Le loro fronti erano madite di sudore, ma gli animi lieti
quando guardavano il grano maturo brillare!
Un giorno tra le spighe spunta una madre con il capo coperto da
un fazzoletto nero e sul davanti ungrembiulone a quadretti
bianchi. Con due occhi grandi e teneri guarda il suo bambino
grosso e robusto, dal viso paffuto, le lentiggini attorno al
naso, non proprio alla francese ma grosso e rotondo, insomma;
buffo, si chiama Mimì.
I suoi capelli sono arruffati, folti e ricci, di colore chiaro.
La madre lo abbraccia, l’accarezza e gli domanda:
madre - “ Mimì aieirasciut a la scol ?”
Mimì -“sì mà”
madre - “ a fattlezzion?”
Mimì -“ sì mà “
…e poi diventa rosso.
madre - “ Mimì ce stat?“
madre - “ ce te ditt u maestr? “
Il maestro era un uomo basso e tarchiato, vestito con un paio di
pantaloni larghi e stinti, stretti alla vita da una cintura, ed
un gilè dal cui taschino scaturiva un orologio rotondo con la
catena d’argento. Un si oggetto all’antica, insomma buffo e
d’altri tempi.
Il maestro si avvicina a Mimì ed esclama: “ tira fuori i libri e
il quaderno! “Mimì, mette la cartella sul banco, l’apre e prende
il quaderno;
maestro – “ fammi vedere la pagina dei verbi che hai scritto “
Il maestro prende il quaderno di Mimì, lo apre e va a vedere il
compito svolto daMimì e cioè: scrivere il passato prossimo del
verbo cadere.
“Io ho caduto”, legge il maestro ed esclama : “no Mimì si dice,
io sono cadutoidendo a più non posso!”...... e gli sottolinea
l’errore con la matita rosso/blu evidenziandolo.
Il bambino arrossisce di rabbia, poi si alza al banco ed esclama
: “proessò; nòmaestr……..ò ho caduto ò sono caduto , sembre a
terra ho andato !!!”
Il tutto si svolge nella stanza grande della masseria tra le
risate e l’ilarità dei compagni di ogni età e ceto sociale, in
una classe plurima della campagna di Masseropoli.
Maestro: “basta così Mimì !!!!” ….. e gli molla uno schiaffo
pesante sulla guancia sinistra,….”sei un asino, uno stupido, un
ebete!!!”……poi chiama gli altri ragazzi che uno alla volta, con
il dito di saliva gli bagnano il naso ridendo a più non posso.
Intanto, si sentono i rintocchi di campana della chiesetta
vicina e le grida del maestro che esclama :“Mimì, apri le mani
!!!”
Mimì -“nòmaé p’ piacer nò, p’ pietà d’ Signore !!”
Maestro -“ Mimì apri le mani !!! ”
Mimì -“ nòmaé p’ pietà d’ Signore !!”
Maestro –“ Mimì, apri le mani, ho detto !!!!” …. Il bambino
tremante e pauroso apre finalmente le dita e d’improvviso riceve
una violenta bacchettata su di esse; “ahia ahiaahia, bast’, bast’….p’piacere….p’pietà….lassatemestà
!!!” …urla Mimì, scappando dalla stanza.
Davanti alla porta, intanto, viene fermato da un gruppo di
compagni alti e robusti che, lo vogliono pestare.
Il maestro intervenendo: “Fermatevi ragazzi, lasciatelo stare,
non lo toccate, fermi, venite qua !!!”…..Mimì, si divincola e,
riesce a scappar via; corre davanti al maestro e gli si
inginocchia con i lacrimoni agli occhi.
“Grazie signò, grazie proessò, no maestr, movac a la casa mì !!!
“ …. e fugge via piangendo dolorante.
Passano alcuni giorni; una settimana, due e, Mimì è assente
dalle lezioni.
Finché un giorno, dopo la lunga assenza, si ripresenta a scuola
con un cartoccio; pane e formaggio fresco da offrire al maestro.
Il maestro rimane sbigottito, dalla generosità del bambino e,
afferrato il formaggio, lo mangia avidamente esclamando: “buono
buono”….. producendo un gran rumore nella masticazione tanto gli
era gradito e, tra un boccone e l’altro dice a Mimì: “Domani
mattina, dì ai tuoi genitori ti portarmene una forma intera”.
All’epoca, gli insegnanti, che non erano dei luoghi, erano
ospitati nella masseria, dove gli veniva riservava una stanza.
Il maestro, dopo aver chiesto a Mimì, apre la porta della sua
stanza, non distante dallo stanzone che fungeva da aula e,
mostra la sua dimora. Questa era disadorna ed arredata con
l’indispensabile, pochissime suppellettili; un letto costituito
da una brandina cigolante con adagiato un materasso imbottito da
foglie di granturco, che facevano a gara nella rumorosità, per
lo scricchiolìo con la rete della brandina, e, facendo un
concerto nonpiacevole per l’ospite.
Appesa ad una parete spiccava una lavagna, su questa il maestro
annotava la calendarizzazione delle lezioni nell’anno
scolastico.
Mimì, osserva e stupito si rivolge al maestro dicendo: “Proessò,
castavit’? …boh pecche non venit’ a dorm e a mangià a casa mì???...nu
sim’ diecefigghie e durmim’ tutt’ ndà nu liett, ndastanz’ d’
mamma. Vù ve putite accumudàndastanz’ ieran, e stavitemeggh’ de
cà!!!!.......pumangià poh nun ve duviteproprpreoccupà. N’cè papà
mì, ca va fore e port’ tutte le jurne a fritta fresch!.......Mamma
mì, poh, face u pane frisch e a f’cazzfresch, pupummorole o come
ve piace a vu; venite pe me ca v’accompagne i’ stess !!!”
Il maestro commosso, abbraccia Mimì e gli dice: “ Sì ! Verrò a
casa tua a dormire e a mangiare perché mi sono stancato di
questa miseria, ma ti farò delle lezioni individuali di
italiano, storia e geografia e, ti guiderò personalmente….. E’
vero!! Sei ignorante e analfabeta ma ha davvero un cuore d’oro
Mimì !!!!”
............................................................ |