Scuola, famiglia e società

 

MIGLIONICO. Sia pure con ritardo, rispondo ai numerosi quesiti che mi ha rivolto l’amico Giacomo non riguardanti, come il solito, argomenti di attualità politica, ma i ripetuti episodi d’intolleranza che si ripetono “all’interno della scuola e nell’ambito delle famiglie italiane”. Si riferisce in particolare ai casi di bullismo ai danni di alunni e insegnanti che da qualche tempo riempiono la cronaca di giornali e televisioni.
Amati si chiede, e mi chiede, se la scuola sta perdendo autorevolezza a scapito del suo ruolo primario di formazione dei giovani. Si chiede altresì come si può far leva sullo spirito critico dei ragazzi e renderli più responsabili delle proprie azioni, nel rispetto dei principi che regolano la vita sociale. In poche parole mi sollecita ad affrontare un problema di cui la scuola e l’intera società dovranno farsi carico per reggere le sfide del mondo moderno.
Tali episodi sono solo la spia che rivela una crisi più profonda che la scuola italiana sta attraversando e riguarda sia il sistema scolastico, sia il rapporto scuola-famiglia, scuola e società. Veniamo ai fatti. Oltre ai fenomeni di bullismo che si ripetono ormai quasi quotidianamente ai danni degli alunni più deboli, spesso sono gli stessi insegnanti a subire violenze anche da parte degli stessi genitori. L’ultimo scandaloso episodio che si è consumato in questi giorni di fine anno scolastico è stata l’aggressione ai danni di un capo d’Istituto, colpevole di non aver impedito la bocciatura di un alunno.
Un altro sconcertante fenomeno che ha invaso le cronache degli ultimi tempi sono i comportamenti coercitivi che alcune insegnanti di scuola dell’infanzia hanno assunto nei confronti dei piccoli alunni. Le contromisure non si sono fatte attendere. I responsabili, in gran parte individuati, sono stati puniti in base alle proprie responsabilità. Come si può notare, il quadro che ne viene fuori è oltremodo preoccupante. Attenti però a non considerarli come fatti isolati; vanno visti sotto una comune matrice educativa e sociale da richiedere un’analisi profonda del disagio giovanile e del ruolo che devono svolgere la scuola, la famiglia e la società nel suo complesso.
Pur non trascurando di individuare le responsabilità individuali, il discorso da fare è molto più complesso e riguarda le cause più profonde che generano simili comportamenti. E’ giusta l’osservazione di Amati quando afferma che “alcuni ragazzi danno la sensazione di aver smarrito il senso del limite e inseguire l’obiettivo di voler raggiungere in tutti i modi il successo , spinti dal demone del permissivismo e del narcisismo”. Senza avere la pretesa di voler fare una compiuta analisi sociologica esse, le cause di fondo, vanno cercate nei disvalori che la società odierna trasmette alle giovani generazioni.
Il culto sfrenato per l’adorazione del dio denaro, il consumismo imperante, l’arrivismo e la frenesia dell’apparire non sono che i fattori più diffusi, responsabili di spingere molti giovani in comportamenti che sfociano in una violenza insensata e nel disprezzo dei più deboli. Con questo non voglio minimamente sminuire le responsabilità di chi commette atti non conformi al vivere civile, siano essi alunni, genitori o gli stessi insegnanti.
Il problema è stato ampiamente analizzato in tutte le sedi. Giornali e televisioni ne hanno discusso fino all’inverosimile e informato l’opinione pubblica fin nei minimi particolari. Sono stati interpellati esperti di ogni settore: pedagogisti, psicologi, giuristi e quant’altro, i quali hanno proposto i rimedi più vari per debellare il fenomeno. Non tutte, però, le contromisure suggerite meritano la totale approvazione. Molti, spinti dalla pressione dei media, hanno invocato punizioni esemplari nei confronti dei ragazzi incriminati; taluni hanno evocato la prassi autoritaria dei tempi passati; altri ancora hanno attribuito tutta la responsabilità alle famiglie che versano in condizioni disagiate.
Ciò che più mi ha irritato sono state le dichiarazioni di un politico di Basilicata, il quale ha proposto di installare nelle scuole dell’infanzia un sistema di videosorveglianza per controllare il comportamento delle insegnanti. Solo così l’autorevolezza da recuperare per la scuola italiana finirà perduta per sempre. In ogni modo, tutto quest’acceso dibattito è servito a far emergere un problema che negli ultimi tempi è passato sotto silenzio: quale futuro per la scuola italiana?
Prima però di esprimere il mio modestissimo parere in proposito, vorrei fare alcune doverose precisazioni. Stiamo attenti a non farci influenzare negativamente da certi episodi, anche se piuttosto frequenti e senz’altro da condannare. Restano pur sempre casi isolati nel panorama della scuola italiana; la stragrande maggioranza delle sue istituzioni è pienamente integra; il corpo insegnante, a tutti i livelli, pur con enormi sacrifici, tiene alto il prestigio del sistema scolastico. Ciò è ampiamente dimostrato dalla buona preparazione e dalle spendibili competenze che acquistano i nostri giovani. Per non parlare dei numerosi istituti di “eccellenza” che suscitano l’invidia dei Paesi concorrenti. I licei umanistici, le scuole tecniche, sparsi ovunque e le scuole dell’infanzia, non solo emiliane, sono solo un esempio dell’efficienza delle nostre scuole.
Tutto bene, dunque? Nient’affatto. I problemi restano. Alla domanda di Amati: “La scuola sta perdendo autorevolezza?” non si può che rispondere di sì. Purtroppo è una realtà acclarata: la scuola ha perso gran parte del suo prestigio. Pur rendendomi conto di fare del sociologismo a buon mercato, non posso sottrarmi dall’esprimere le mie opinioni sulle cause che hanno generato la situazione attuale. Non è una falsità se affermo che, dal secondo dopoguerra in poi, la scuola non è mai stata tra le prime preoccupazioni della politica. Non v’è mai stata un’autentica politica scolastica al vertice degli interessi di governo.
Più volte, è vero, si è tentato di riformare seriamente il sistema scolastico ma, a ogni cambio di esecutivo, si è demolito tutto quello che si era fatto in precedenza. Col risultato che vi sono stati sì alcuni miglioramenti, ma hanno assunto la forma di macchie di leopardo, senza costituire un globale disegno riformatore. Tutto questo ha prodotto sfiducia nelle istituzioni e in particolare in quelle educative. Le aspettative delle famiglie sono state deluse ed è prevalso lo scetticismo e la rassegnazione. E’ da dire però che, nonostante quest’oggettiva disorganizzazione, la scuola reale ha assolto con grande senso di responsabilità ai doveri cui è preposta. Il problema comunque rimane.
“Che cosa si potrebbe fare per ripristinare il principio di autorità nella nostra scuola?” si chiede ancora Amati. Per prima cosa occorre porre in essere una riforma che affronti dalle fondamenta il sistema formativo italiano. Il Governo Renzi, con la “Buona Scuola”, ha tentato di indicare un percorso, certamente insufficiente e parziale, ma è ugualmente fallito. Non è più rinviabile, dunque, una riforma che affronti non solo l’organigramma, per così dire strutturale, del sistema d’istruzione (dalle scuole primarie all’università), soprattutto rinnovi contenuti, metodologie e finalità dei singoli livelli scolastici, al passo con le esigenze dei tempi attuali.
Non mi riferisco solo alle nuove competenze che il mondo moderno richiede, ma soprattutto all’acquisizione di modelli di comportamento che rendano l’uomo più responsabile e consapevole dei suoi e dei diritti altrui. In altri termini padrone del suo destino, non soggetto a condizionamenti di natura ideologica, religiosa o di modelli pianificati d’istruzione, tipici degli stati autoritari. A questo punto è doveroso fare chiarezza sui ruoli che spettano alla scuola, alla famiglia e alla società in generale; definire gli ambiti entro i quali ciascuno deve muoversi per non generare equivoci e invasioni di campo. Il termine da cui occorre partire è la parola: Educazione. A chi spetta? Alla scuola, alla famiglia, alla religione o allo Stato?
Se è innegabile che la famiglia giochi un ruolo fondamentale in tale compito, non per questo ne detiene l’esclusiva. Tutto dipende dal significato autentico che si vuole riconoscerle. Se, com’è da tutti accettato e condiviso, (essa) consiste nello sviluppare nell’essere umano “la capacità abituale di agire rettamente con libertà”, allora il discorso si fa più chiaro e relativamente più semplice. E’ innegabile il ruolo giocato dalla famiglia in quest’umanissimo rapporto genitori - figli. A parte alcune rare eccezioni, rappresentate da persone che riescono a liberarsi dalla dominazione mentale ed emotiva che esercitano i genitori, la maggior parte è notevolmente influenzata dai messaggi che riceve fin dall’infanzia.
Tali messaggi possono essere positivi e (spesso) anche negativi; comunque riflettono ciò che la famiglia pensa riguardo al mondo e ai valori da essa incorporati. In parole più semplici essa trasmette in modo naturale, quasi per contagio, modelli di comportamento, concezioni etiche e mentali che condizionano la personalità e il modo di essere della maggior parte degli individui. Talvolta, però, come accennato, tali valori sono estremamente negativi. Si pensi alle famiglie della criminalità organizzata che, sin da piccoli, tramandano ai bambini “l’arte” della violenza e dell’illegalità. Per fortuna, la maggioranza non appartiene a tali categorie di persone e tutti si sforzano di volere il bene dei figli e di infondergli il seme del vivere civile, del rispetto e dell’amore reciproci.
Tutto però avviene in modo naturale (a loro insaputa, come suole dirsi), non a livello intenzionale e tecnicamente programmato. Il compito specifico di educare, secondo il concetto di educazione di sopra accennato, non spetta pertanto alla famiglia ma, in primo luogo, alla scuola. Se tutto ciò è vero, se la famiglia trasmette quasi di soppiatto valori e comportamenti positivi ai propri figli, perché allora accadono sempre più frequenti gli episodi di bullismo e le aggressioni cui si è accennato? Significa che qualcosa sta cambiando, sia nella percezione che le famiglie hanno del proprio modo di essere, sia nei comportamenti dei giovani studenti.
Pur non sottacendo che i figli sono il riflesso della mentalità e dei comportamenti dei genitori che, spesso, determinano il modo di comportarsi a scuola, essi stessi sono influenzati dal gruppo dei pari di cui fanno parte. Area che comprende non solo la comunità di appartenenza, ma si è ulteriormente estesa ai mezzi di comunicazione di massa quali il cinema, la televisione e soprattutto il mondo degli smartphon e di internet. Senza voler generalizzare, è innegabile che la complessità e i valori di una società in continua trasformazione, spesso in modo negativo, condizionino fortemente il comportamento della gioventù. Se questo serve a farci capire il perché di certi comportamenti, c’è una lista infinita di modelli non propriamente ortodossi cui i giovani sono indotti a seguire. Inutile ricordare il condizionamento negativo che certi programmi televisivi e spettacoli cinematografici esercitano sul loro modo di comportarsi.

Ma ciò che più ha rivoluzionato i comportamenti e il modo di pensare dei giovani è stato l’avvento di internet. Anche se tale mezzo di conoscenza potrebbe renderci tutti più intelligenti, istupidisce non pochi. Non si tratta soltanto di una calamita per gente curiosa e necessitata di imparare nuove cose, ma è un inghiottitoio per creduloni. E’ un recipiente, non un arbitro. Purtroppo, anche a causa di simili mezzi d’informazione-comunicazione, il nuovo attivismo studentesco sta regredendo verso il vecchio attivismo di mezzo secolo fa; il famoso 68’, che pur partendo dalla necessità di debellare lo strapotere dei “Baroni” e una prassi d’istruzione autoritaria, si tramutò in intolleranza, dogmatismo e perfino in minacce e violenze.
Ironia della sorte (o forse tragedia) gli stessi studenti oggi, forse perché consapevoli di potersi indottrinare più velocemente su Wikipedia, credono di saperne più dei professori, si sentono autorizzati a usare un linguaggio estremo per richieste assurde d’inezie insignificanti. Su un piano del tutto analogo si svolge ormai il rapporto scuola-famiglia. L’ascesa di un pubblico sempre più potente, ma sempre più ignorante, dovuto a molti fattori fra cui la ricchezza, la prosperità e la diffusione della tecnologia e dell’istruzione universale, se per certi versi è servita a sconfiggere l’analfabetismo atavico e ad accrescere il senso del diritto, ha però nello stesso tempo fatto crescere a dismisura una malriposta fiducia in se stessi che si sta trasformando in arroganza, presunzione e, quindi, in una nuova ignoranza che in democrazia “vale quanto la conoscenza degli altri”.
In un certo senso siamo di fronte a qualcosa di peggio dell’ignoranza: si tratta di un’arroganza infondata, dello sdegno di una cultura sempre più narcisistica che non riesce a sopportare neanche il minimo accenno di diseguaglianza nei confronti degli esperti veri, siano essi medici, avvocati, diplomatici o professori. Come si può notare non è soltanto l’accresciuta potenza economica che rende le famiglie illuse di poter competere alla pari con gli insegnanti e con quanti possiedono competenze le più varie. I genitori eccessivamente protettivi di oggi sono diventati tanto invadenti da rovinare una generazione intera di ragazzi.
Si tratta di famiglie che difendono e coccolano i loro figli fino all’assurdo di sostituirsi a loro nello svolgere i compiti per casa. C’è un altro fattore che, secondo me, gioca un ruolo non certo secondario nel rapporto scuola-famiglia. Si tratta di esempi poco ortodossi che provengono dal mondo politico e sociale, specie in questi ultimi tempi. Il confronto politico che fino a qualche decennio fa si svolgeva nel rispetto e nel riconoscimento degli avversari, si è trasformato in una rissa continua alimentata da violenze verbali e offese personali. Tutto questo, associato ai frequenti episodi di corruzione e forieri d’interessi personali, contribuisce non poco a rafforzare l’atteggiamento di rivalsa dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Ovviamente, date queste premesse, sempre meno persone sono disposte a rispettare la cultura e la competenza altrui.
E qui prendo lo spunto per trattare il ruolo che la scuola svolge o dovrebbe svolgere nella società in perenne trasformazione. Come di sopra accennato, se il fine supremo dell’educazione è la formazione di persone libere e artefici del loro stesso destino, ne risulta che il compito appartiene esclusivamente alla scuola, la sola che ne detiene le competenze tecniche e istituzionali. In sostanza, la scuola italiana, nonostante le tante lacune che ancora attendono di essere colmate, ha svolto con lodevoli risultati il compito che storicamente l’è stato assegnato. Le cose sono cominciate a cambiare quando il sistema economico e sociale ha assunto ritmi che il sistema scolastico non è stato più in grado di tenerne il passo. Per responsabilità soprattutto della politica, che in mancanza di un vero, globale progetto di formazione, non ha mai posto il problema educativo all’apice degli obiettivi politici.
Più volte, come di sopra accennato, fin dai primi anni della nascita della Repubblica, si è tentato di mettere mano a una riforma che disciplinasse l’intero sistema formativo, ma puntualmente ogni volta che cambiava un governo (e ne sono cambiati tanti), il ministro che subentrava smontava ciò che aveva costruito chi l’aveva preceduto. Fino ad arrivare ai nostri giorni con la “Buona Scuola”, rimasta appesa a mezz’asta. Con quali conseguenze? La scuola è stata quasi abbandonata al suo destino, che bene o male, sia pure con grandi sacrifici, non si è sottratta ai suoi doveri. Per le ragioni già espresse non può reggere più di tanto alle pressioni esterne.
Il punto è che in generale non riesce più a fornire ai giovani le conoscenze e le capacità di base, capaci di fornire le competenze necessarie per i tempi attuali. Non è solo un modo di pensare dell’immaginario collettivo, ma per certi versi è vero: un diploma universitario di oggi è l’equivalente di un diploma di scuola superiore di cinquant’anni fa. Le cause ovviamente sono molteplici. Oltre alle responsabilità della politica, della famiglia e della società in genere, talune colpe sono da attribuire non ai singoli insegnanti, ma oggettivamente a una mal concepita pedagogia modernistica che, con l’obiettivo di debellare giustamente l’autoritarismo del passato, ha dato la stura al lassismo pedagogico dei nostri giorni.
Sembra che oggi i professori non istruiscano più i loro studenti, ma sono costoro che pretendono di istruire i professori, con un’autorità che si arrogano fin troppo sfacciatamente. Sono ragazzi cui è stato insegnato a dare del “tu” agli adulti fin dalla più tenera età. Pratica che, nell’uso della posta elettronica, sta diventando un modo di comunicazione tra alunni e professori. Si è arrivato al punto che alcuni insegnanti trattano i ragazzi come loro pari. Errore che danneggia sia l’apprendimento, sia l’insegnamento. La soluzione per questo rovesciamento di ruoli è che agli insegnanti sia consentito di riaffermare la propria autorità e agli allievi sia insegnato ad aver fiducia in loro, con docilità, rispetto e impegno. In che modo? Questo è il punto dolente.
Ritornare a una scuola autoritaria e genericamente selettiva? Eliminare le innovazioni collegate ai Decreti Delegati e annullare ogni esperienza di Organi Collegiali in cui è prevista la presenza dei genitori? Non è questa la strada da seguire perché ci porterebbe indietro nel tempo. Basterebbe restituire autorevolezza ai “protagonisti dimenticati della scuola, gli insegnanti, blindando la loro rispettabilità con la dovuta preparazione, selezione, controllo; associati al riconoscimento del valore umano e sociale di chi ha il compito di formare i futuri cittadini”. Quale preparazione, dunque? Una preparazione professionale, comune a tutti i docenti di ogni ordine e grado; comprendendo oltre alla formazione pedagogica e metodologica di base, la conoscenza delle discipline e la specifica didattica d’insegnamento.
Ciò richiede un percorso formativo completamente rinnovato che inizi dagli istituti superiori e termini con gli indirizzi universitari. Un percorso lungo e faticoso, indispensabile però per affrontare i compiti attuali. Oltre ad adempiere la formazione di uomini liberi, bisognerà che i docenti diventino veri esperti di metodologie didattiche e di psicologia dell’insegnamento. Tutto ciò può ancora non bastare. Occorrerà che ciascuno diventi capace di utilizzare in prima persona gli strumenti didattici multimediali e guidare gli stessi alunni a sapersene servire autonomamente.
Come si può notare, sin da subito agli insegnanti è richiesto un supplemento di competenze che, non solo gli restituiscano l’autorevolezza perduta, ma gli riconoscano la dignità e la rispettabilità che nessuno finora gli ha pienamente riconosciuto. Non solo attraverso una gratificazione economica adeguata, ma col riconoscergli il valore umano e professionale che abbia la stessa dignità, umana e sociale delle categorie all’apice della percezione popolare. Non sembri una provocazione, sarebbe auspicabile una vera forma di selezione che dia al docente una maggiore chance per affermare la sua autorevolezza. Non parlo della selezione rivolta agli alunni, anche se anch’essa andrebbe ripensata in modo più efficace e basato su sistemi meritocratici.
Penso a una selezione rivolta agli stessi insegnanti, per far emergere autentiche vocazioni professionali e scegliere i più motivati. Ciò significa operare una vera rivoluzione nel sistema di reclutamento e nell’accesso all’università. In altre parole lo Stato avrebbe tutto l’interesse a scegliere i migliori e rendere la professione il più possibile ambita. A questo punto non può mancare un cenno al ruolo che lo Stato e la società in generale devono assolvere per riportare alla “normalità” un problema che rischia di sfuggire di mano alle stesse istituzioni. Quella riforma scolastica da tutti promessa e puntualmente risolta in un nulla di fatto, non è più rinviabile. Oltre agli aspetti puramente pedagogici, cui si è accennato, è compito dello Stato porre mano alle strutture di tutto il sistema.
Va benissimo rendere sicure le scuole di ogni tipo, occorre però che siano dotate di tutti i confort moderni (palestre, biblioteche, spazi creativi per socializzare, confrontarsi, etc.), siano aperte anche in orari extrascolastici per consentire agli utenti, soprattutto delle periferie e dei piccoli centri, di usufruire degli stessi servizi delle aree metropolitane. Necessita una riforma che prenda atto del fallimento dell’esperienza scuola-lavoro e avvii un percorso virtuoso che faccia chiarezza sul livello di formazione che ciascun ciclo scolastico dovrà assolvere. Bisognerà inoltre ripensare la formazione di base dei futuri cittadini cui va consentito di sviluppare integralmente le personali tendenze vocazionali e acquisire conoscenze indispensabili che un cittadino deve possedere (educazione alla convivenza democratica, all’arte e al linguaggio musicale della nazione, padronanza della lingua italiana, apprendimento di almeno due lingue straniere, educazione all’uso delle tecnologie moderne, tutte competenze decimate dagli ultimi governi).
Molto positivo il potenziamento delle scuole superiori di “eccellenza”, di cui s’inizia a fare esperienze in questi ultimi anni. Non è da trascurare un altro provvedimento, necessario per rendere le scuole più a misura di alunno e vivibili per gli stessi insegnanti. Parlo dell’eliminazione delle cosiddette classi –pollaio che, non solo mettono a dura prova la resistenza fisica e psichica degli insegnanti (in modo specifico della scuola dell’infanzia), ma soprattutto condizionano l’ideale rapporto docente-alunno. Provvedimento che permetterebbe a tutti gli allievi di essere seguiti nello sviluppo, individuale e collettivo, con efficacia e serenità. Non va sottaciuto inoltre il notevole contributo educativo delle altre istituzioni che hanno a che fare con la formazione dei giovani.
Mi riferisco ai soggetti che si prefiggono di avviare i giovani alla pratica sportiva, ai circoli culturali, alle istituzioni giovanili di aggregazione umana e sociale. Non per ultime, alle diverse confessioni religiose e alle loro corrispondenti attività associative. E’ evidente che tutte queste realtà sicuramente formative, non hanno il compito specifico di educare i giovani nel senso di sopra chiarito. Hanno comunque un peso sostanziale nella loro formazione perchè detentrici di valori morali. Se al mondo sportivo e culturale in genere basta dare esempi di rettitudine morale e coraggio civile per far pesare il loro apporto educativo, le religioni hanno un compito molto particolare e delicato in questo specifico campo.
Oltre a trasmettere il messaggio dell’Ente Supremo ai propri fedeli, svolgono un compito fondamentale nell’equilibrio sociale e umano. E’ un ruolo che va ben individuato e precisato. Se vogliono davvero contribuire alla formazione di persone autonome e libere, dovranno assumere un atteggiamento non di primo piano nell’opera di educazione, ma limitarsi al rispetto delle nascenti personalità. In altri termini non imporre alcuna dottrina dogmatica, liberarsi di sistemi di venerazione che si esprimono in devozione e cerimonie abitudinarie, né imprimere sensi di colpa o minacce di castighi eterni.
Un’azione molto meritoria sarebbe quella di aprire le menti dei giovani e renderli coscienti del valore, anche umano, della Creazione; assicurargli la libertà di pensiero e di espressione anche allo scopo di potenziare la loro autostima. Chiudo queste mie considerazioni sperando di aver risposto almeno in parte ai quesiti di Amati e di aver innescato motivi di riflessione tra i gentili lettori, nell’attesa che qualche volenteroso sia disposto a condividere o a confutare le tesi qui esposte.
Miglionico 3.07.2018
Domenico Lascaro (d.lascaro@libero.it)

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