MIGLIONICO
Scuola e vita in campagna

Ringrazio vivamente l’autrice del concorso che mi ha stimolato a scrivere questo“racconto”; non ho mai osato esporre pubblicamente i miei sentimenti, perciò le sono infinaltri_1261.htmitamente grato. E’ un’iniziativa di alto valore letterario, sociale e morale, che fa onore a colei che l’ha ideata e a quanti hanno contribuito a fornire l’imprimatur istituzionale.
Partecipo volentieri per offrire una testimonianza diretta, come ex alunno e come insegnante nelle scuole di campagna. A una condizione: che il lavoro non sia considerato concorrente al premio finale, ma solo come un modesto contributo alla riuscita dell’iniziativa. Poiché uno degli obiettivi del concorso è la “conoscenza e lo studio della storia e della civiltà contadina di Basilicata”, penso che sarò in tema se proverò ad associare altre esperienze riguardanti, in generale, la vita agreste che ho vissuto negli anni della scuola rurale.

La frequenza della prima classe inizia nel lontano 1949 nelle scuole elementari di Miglionico. E’ una classe composta di oltre trentacinque alunni. L’insegnante, una giovanissima Ida Bruni, ci porta quasi tutti in terza elementare; la passione e l’impegno profusi le vengono riconosciuti da tutti, alunni e genitori. Le scuole sono situate nel vecchio convento dei frati cappuccini; uno stabile mal conservato, ma ancora idoneo a contenere oltre cinquecento alunni. Non ha di servizi igienici regolamentari -gli scarichi sono direttamente collegati ai condotti che vanno a finire nei dirupi sottostanti - né sistemi di riscaldamento e di illuminazione adeguati.
Nei mesi invernali, prima del suono della campanella, una delle due bidelle in servizio, Giuseppina, Peppinella, si premurava diScuola di campagna di Rotondella (dal sito http://www.quintocd.gov.it/content/view/2382/1/) accendere la carbonella in grandi bracieri, soffiando con un ventaglio di rame. Ahimè, il calore prodotto serviva solo a riscaldare gli insegnanti e, a turno, qualche bambino infreddolito.
Il primo giorno di scuola, dopo l’appello, la maestra ci condusse, salendo per una larga scala, in un’aula del piano di sopra. Era uno stanzone lungo e stretto, illuminato da due finestroni che si aprivano all’interno del chiostro. Siccome ero tra i meno alti, - c’erano già alcuni ripetenti –per esplicita richiesta di mia madre, occupai il primo banco insieme con mio fratello gemello. All’epoca i gemelli non andavano separati, né si vestivano in modo diverso.
I più alti furono sistemati negli ultimi banchi, composti di strutture di legno compatto. Comprendevano la seduta e lo scrittoio, ribaltabili per agevolare l’ingresso dei bambini. Nella parte fissa erano ricavati due fori, uno per ogni posto-alunno; servivano a collocarvi i calamai per l’inchiostro. I banchi più bassi erano posti avanti, in fondo quelli più alti, per consentire a tutti la visuale della lavagna e di essere facilmente seguiti dall’insegnante. Ciascuno era corredato di un ripiano sottostante e di un poggiapiedi.
Fin dal primo giorno s’inizia con la matita a riempire pagine e pagine di aste, cerchi e bastoncini. Dopo qualche tempo si passa alla scrittura delle letterine. E via con altre decine di pagine. Passano alcuni mesi ed è la volta delle sillabe. Stesso monotono esercizio che i bambini eseguono con rassegnata sollecitudine. Si procede con la lettura delle prime sillabe – ba be bi bo bu, ma me mi… L’apprendimento dei numeri avviene allo stesso modo: scrittura di intere pagine e riconoscimento contemporaneo del valore numerico.
La lettura delle prime frasi, a metà dell’anno scolastico; alla fine, i più bravi riescono a leggere interi brani. L’esercizio più comune,a casa, è quello di leggere, dieci-venti volte, il brano assegnato. Dopo aver imparato a contare entro il venti, con l’ausilio di fave e ceci, si cominciava con le prime operazioni aritmetiche. Seguivano i primi dettati e la memorizzazione di filastrocche, il disegno spontaneo e la lettura di qualche favola da parte dell’insegnante. Solo ad anno scolastico inoltrato si usava la penna con l’inchiostro.
Qui veniva il bello. Il nero fluido non sempre si usava per scrivere; spesso finiva per imbrattare le mani e i visi dei bambini. I quaderni erano tutti uguali: la copertina di colore nero, su cui si applicava una targhetta per scrivervi il nome e il contenuto. Mi sono dilungato sul metodo di apprendimento della lettura e della scrittura, allo scopo di descrivere qual era effettivamente la metodologia applicata nel periodo post-bellico. I metodi attivi, il globalismo, l’insiemistica e quanto di nuovo è emerso negli anni, erano ben lontani dall’essere conosciuti.
I due anni successivi si svolsero con estrema regolarità e la massima efficacia di apprendimento. Non tutti riuscirono a superare gli esami di seconda classe e dovettero ripetere l’anno. Nonostante il periodo fosse caratterizzato da un rigoroso metodo disciplinare, non ricordo che la maestra abbia mai fatto ricorso alle punizioni corporali. La bacchetta serviva solo a indicare figure o scritte sulla lavagna.
Relativamente alla classe terza, conservo, nitido, un solo ricordo. Erano gli anni della costruzione della diga di S. Giuliano; da Roma e dal Nord Italia giunsero diversi tecnici che trovarono alloggio,con le loro famiglie a Miglionico. La classe si arricchì di un nuovo alunno di nome Angelo De Silvestri. Il cognome, insolito dalle nostre parti, la statura più elevata rispetto agli altri, sempre ben vestito e pettinato, lo resero il compagno preferito da tutti; risultò subito il più bravo; sembrava disceso da un altro pianeta.

Quel particolare periodo storico era contraddistinto da una netta separazione tra Nord e Sud, sia sul piano economico, sia sotto l’aspetto sociale e culturale. Il Nord ricco ed emancipato, il Sud arretrato e sottosviluppato. Erano anni bui sotto ogni punto di vista. Si scontavano le sofferenze inferte dalla guerra. La miseria era generalizzata; gran parte della popolazione viveva in case fatiscenti che, spesso, erano ubicate sotto il livello stradale. I lavoranti più fortunati erano a giornata, o ad anno intero,presso i proprietari terrieri, mal pagati e senza un minimo di protezione sociale.
Prestavano ininterrottamente il loro servizio per svolgere i lavori più vari: portare gli animali al pascolo, mungere quelli da latte, arare i campi e quant’altro fosse necessario. Il vitto, quanto di più frugale possibile; il compenso era per lo più corrisposto in natura: grano, cereali, legumi, una decina di litri d’olio, una “pezza “ di formaggio, qualche indumento dismesso dal padrone. Tra gli artigiani, falegnami e i fabbri erano i più avvantaggiati. I primi perché, solitamente, erano gli unici a realizzare i mobili per arredare le case dei novelli sposi: un letto, un armadio, una cassapanca per la biancheria, una per le derrate alimentari e quattro sedie. I secondi per l’alto numero di muli e asini che avevano bisognodi essere “ferrati”.
I calzolai non se la passavano tanto bene. Era uso andare a “giornata” nelle case di chi aveva necessità del loro servizio: riparare,o costruire dal nuovo le scarpe. Vi rimanevano tutto il tempo necessario, compreso pranzo e cena. I barbieri, per la maggior parte del tempo, si dedicavano a strimpellare la chitarra. Solo il sabato sera e la mattina della domenica lavoravano sodo, quando i contadini, a fine settimana, tornavano dai campi. Insomma, tranne i grossi proprietari terrieri, che da sempre avevano una vita agiata, anche gli artigiani non facevano salti di gioia.
Lo stesso tessuto urbano era in condizioni di estrema precarietà; l’igiene e la manutenzione delle strade erano pressoché inesistenti. Sciami di mosche e d’insetti invadevano strade e abitazioni. L’arrivo degli americani, che portarono un nuovo prodotto per disinfestare l’ambiente, servì ad attenuare il fenomeno. Ma il D.D.T., era quello il nome dell’insetticida, era tossico e pericoloso per la salute. Oltre ai vari insetti che infettavano l’ambiente, altri animali vi contribuivano massicciamente: muli, asini, cavalli che spesso facevano i loro bisogni per strada; animali da cortile – galline, maiali, cani - tenuti nelle stalle dell’abitato, davano anch’essi un notevole contributo.
Era consuetudine, in quegli anni, che tutta la popolazione nutrisse un maiale, il porco di Sant’Antuono, il quale, mozzate le orecchie, girava libero per il paese in cerca di chi gli desse qualcosa da mangiare. Naturalmente anch’esso dava una mano, meglio un piede, a imbrattare l’abitato. Alla pulizia delle strade erano adibiti pochi “spazzini”, con pochi mezzi e tanto lavoro. A rendere ancor più precarie le condizioni igieniche era la quasi totale mancanza di acqua corrente.
La struttura fognaria era stata attivata solo dagli anni ‘36/37 e i bagni privati erano solo appannaggio di pochi. S’immagini il disagio immane che la popolazione era costretta a subire. Ogni mattina, alle prime ore, girava per le strade il “sc’ttacallar”, l’addetto alla raccolta della “produzione notturna”; il contenuto si versava nell’apposita “callara”, sistemata su un carretto tirato da un asino; veniva svuotato, a cielo aperto, nei burroni sottostanti. Quale attrazione per mosche e randagi!
Per le necessità di acqua potabile, la maggior parte delle famiglie faceva ricorso agli acquedotti pubblici. L’erogazione, però,spesso avveniva a giorni alterni e solo per poche ore. Già dalla sera prima, o al mattino presto, bisognava guadagnarsi la prima posizione. Si deponevano presso i fontanini, in ordine d’arrivo, i recipienti più vari: barili, anfore, damigiane e quant’altro. Quando non si rispettava il diritto di precedenza, sorgevano infinite discussioni, non sempre in forme civili: donne che si accapigliavano, prepotenti che non rispettavano il turno, recipienti che volavano via. Le famiglie più ricche usavano altri sistemi. Con poche decine di lire assoldavano il “carresc’a iacqua” e, a dorso d’asino, si facevano portare l’acqua dalle fontane d’intorno.

Queste le condizioni nelle quali erano costrette a vivere le famiglie più povere. Spesso, nei mesi più caldi, si vedevano andare in giro bambini a piedi nudi per risparmiare le scarpe per l’inverno. In assenza di attrattive e di strutture idonee, come passavano il tempo i ragazzi, una volta fuori dalla scuola? I luoghi più praticati erano la strada e gli spazi incolti intorno al paese. Non appena finivano di “divorare” il solito piatto di minestra – molti dovevano contentarsi di una fetta di pane e olio, con una spruzzatina di zucchero - subito in strada in cerca dei compagni; armati di “ciucc e mannedd” o di “cerchio e mart’llin’”, gli attrezzi di gioco più comuni, iniziavano il “dopo scuola” abituale.
Qualche volta accadeva che, con la modica cifra di dieci lire, si poteva assistere, nel vecchio cinema, alla proiezione di un cartone animato. I ragazzi più grandi ricorrevano a qualcosa di più emozionante:in ogni rione si organizzavano in vere e proprie bande, contro i quartieri avversari. Spesso si “dichiaravano guerra” e si disputavano vere e proprie battaglie, armati di pietre, bastoni e con le usatissime fionde. Che io ricordi non avveniva mai che ci si facesse davvero del male. Talvolta la sfida si riduceva a battersi su un terreno di gioco: per una partita a pallone, una sfida a “ciucc e mannedd” o una corsa campestre. Niente a che vedere con le cruenti battaglie disputate dai “ragazzi della via Pàl”.
Tra i tanti trastulli che occupavano il mio tempo post-scolastico, uno lo ricordo ancora con nostalgia. Il merito era tutto di un compagno di pochi anni più grande. Aveva la precoce vocazione a esercitare l’arte del comando. Raccoglieva intorno a sé i ragazzi più piccoli e li addestrava alla marcia, all’esecuzione degli ordini e al rispetto dei capi. Gli confezionava divise di carta, berretti colorati, bandierine tricolori da sventolare e, in fila indiana li faceva marciare per le strade del paese.
A ogni punto strategico dell’abitato, su un muro o sulle scale di qualche abitazione, il “capitano” improvvisava un“comizio” di fuoco. Era il giovanissimo Mariano Montemurro. Nell’età più matura non si è minimamente smentito: prima di trasferirsi a Matera per insegnare Italiano nei Licei, fondò un circolo cultural-ricreativo, - il glorioso 7M – che, per più di un decennio raccolse intorno a sé il meglio della gioventù miglionichese. Ci ha lasciati pochi anni fa.
Chiudo la parentesi e, prima di passare alla quarta classe, dedico un cenno a tre diversi episodi, gli unici della scuola “d’asilo”. Ero seduto di spalle a una dispensa contenente materiale scolastico. Mentre mi stavo beatamente dondolando, perso l’equilibrio, caddi rovinosamente all’indietro e infransi il vetro della credenza, riportando escoriazioni, fortunatamente, di lieve entità. Secondo episodio. A turno, il comune forniva un pasto caldo a chi ne avesse bisogno. Un giorno un piattone di pasta e fagioli mi causò l’irreparabile.
Al momento dell’uscita, nel tratto dalla scuola a casa, il pasto consumato con tanta foga si disperse tutto per la via. Arrivato a casa mia madre mi calò tutto intero in una tinozza di acqua bollente. L’ultimo riguarda l’esercizio del “confezionar barchette”, molto in uso, all’epoca, nella scuola materna. La carta usata era piuttosto spessa e nelle frequenti “battaglie” che avvenivano l’uno contro l’altro, fui colpito in un occhio da una barchetta appuntita, rischiando di perderlo per sempre. Morale: la cultura della sicurezza era ancora di là da venire.

A causa della decisione di trasferirci in campagna, la frequenza in quarta elementare subisce un cambiamento radicale. Siamo nei primi anni cinquanta. Il lavoro scarseggia e la miseria è palpabile negli strati più umili della popolazione; il lavoro lo si cerca ovunque, anche in regioni lontane. Si assiste, pertanto, a una ripresa massiccia dell’emigrazione verso le città del Nord. Anche da Miglionico partono decine di persone. Un fratello di mio padre, a capo di una famiglia numerosa, non sfugge all’ingrato destino. Vende quel poco che possiede e si trasferisce, con moglie e figli, in una città del Piemonte.
Con loro parte la più piccola delle mie sorelle. I miei genitori, indebitandosi, acquistano un piccolo uliveto confinante col nostro. Si forma così una piccola azienda, capace, in prospettiva, di sostenere la famiglia. Per estinguere il debito, però, occorrerà lavorare sodo. Con i contributi dello Stato, riusciamo in poco tempo a costruire una modesta casa in campagna, dove si trasferisce tutta la famiglia.
Inizia per me, e per mio fratello, un periodo di grandi sacrifici e di estreme privazioni. Per frequentare la quarta, bisognava recarsi ogni giorno in paese e fare, a piedi, sei chilometri, tre all’andata, tre al ritorno.. La stessa sorte toccò a un bambino delle nostra stessa età, la cui famiglia viveva poco distante. Di buon mattino, prima di raggiungere la rotabile sovrastante, occorreva inerpicarsi per una stradina in salita, lunga oltre mezzo chilometro. La cartella di tela a tracolla, il berretto di incerata calcato sulla nuca, gli scarponi di cuoio bianco di Sorrento – le sorrentine – e via di corsa verso il paese. Col bel tempo tutto procedeva nel miglior dei modi. Nei giorni di pioggia e vento, il disagio era enorme, si arrivava a scuola intirizziti e bagnati come pulcini. Con un solo ombrello dovevamo ripararci in due.
L’aula che ci ospitava, si trovava all’esterno del vecchio convento, adiacente alla chiesa del Crocefisso, situata a piano terra e senza servizi igienici; per i bisogni si doveva rientrare nell’edificio; il più delle volte, senza essere visti, dietro i muri sottostanti. Era una classe mista di oltre trenta alunni. Il maestro, un bell’uomo sulla quarantina, con un grazioso pizzetto, ai nostri occhi, appariva straordinariamente simpatico. Con una vecchia motocicletta, veniva ogni giorno da Matera.
Il buon uomo aveva tutta la voglia di arrivare puntuale in servizio, ma spesso giungeva con qualche mezz’ora di ritardo, e forse più: colpa del mezzo, non pienamente efficiente,ma non solo. Durante l’ultima guerra, come pilota di aerei, aveva subito una brutta ferita al capo che gli procurava ancora molte sofferenze e non gli permetteva il massimo della puntualità. L’entusiasmo per il lavoro gli dava una tale carica, che riusciva a farsi perdonare i ritardi e a conquistare la stima e l’affetto di tutti.
Ci narrava, talvolta, le sue esperienze di vita militare, per lo più a bordo di aerei traballanti e rumorosi; di voli notturni o di virate improvvise che incantavano tutta la classe. Usava un metodo d’insegnamento davvero impensabile per quei tempi. Ci divideva in gruppi di apprendimento, in modo che i più bravi aiutassero i meno capaci. Spesso ci conduceva nelle botteghe artigiane per farci apprezzare l’importanza del lavoro.
L’esperienza più bella, per sua iniziativa, si ebbe con l’allestimento di una recita teatrale che coinvolse non solo la nostra, ma diverse altre classi. Dopo alcune settimane di preparazione, anche in orario extrascolastico, il saggio finale si tenne nei locali del vecchio cinema, alla presenza di genitori e autorità cittadine. Mio fratello ed io facemmo parte del coro. Il ritornello del “Vecchio scarpone”, ancora mi rimbomba nelle orecchie. Ebbe un tale successo che se ne parlò in giro per parecchio tempo. Si chiamava Peppino Spera. E’ scomparso pochi anni fa. Il ricordo del maestro Spera è rimasto per sempre nel cuore dei suoi scolari.

Siamo giunti, intanto, in quinta classe. Con il nostro terreno, confinava la piccola azienda del Direttore Didattico, dott. Michele Santarcangelo, originario di Miglionico, ma residente a Matera. Quell’anno, era il 1953, giunse da Salandra una numerosa famiglia di mezzadri che si apprestava a prendersi cura dei suoi terreni. Era composta, oltre che dagli adulti, da quattro minori in età scolare. Il Direttore si adoperò subito per far istituire una scuola in uno dei suoi locali. Si raggiunsero facilmente undici alunni, sufficienti per formare una pluriclasse. Infatti, confluirono altri quattro bambini, figli di contadini che vivevano a pochi chilometri di distanza, sulla strada per Grottole. Con mio fratello, me stesso e l’altro vicino si raggiunse, pertanto, il numero stabilito.
Iniziava un periodo di scolarizzazione che durerà oltre tre anni. Non perché, con mio fratello, ripetemmo qualche classe, ma perché non v’erano, allora, le possibilità economiche per iscriversi alla scuola media di Matera. Frequentammo, di seguito, la quinta, la sesta e la settima classe; così si denominavano all’epoca. Per prima, ebbe l’incarico una giovanissima maestra, di nome Antonietta Padula. Nei primi tempi alloggiò nella nostra casa di campagna; in seguito trovò posto in un piccolo locale adiacente all’aula. Era una ragazza semplice, amabile, proveniente da un’umile famiglia di contadini che abitava, come la maggior parte degli agricoltori, nelle case dei Sassi di Matera.
Al primo anno d’insegnamento, si trovò subito ad affrontare una pluriclasse che comprendeva alunni dalla prima alla quinta. L’aula era stata arredata come meglio si poté. Di forma rettangolare, appena sufficiente a contenere una decina di vecchi banchi e una consunta lavagna portati dal paese. Non vi erano altre suppellettili, oltre a quelle necessarie alla vita della maestra: un lettino sistemato nello spazio antistante, una piccola cucina a gas, un armadietto recuperato chissà dove. L’insegnante, fresca di studi e con una formazione ancora ispirata alla filosofia gentiliana, secondo cui “il metodo è il maestro”, doveva inventarsi le strategie didattiche più estemporanee per seguire una classe con alunni di età diverse.
Per noi scolari la giornata iniziava ancor prima dell’inizio delle lezioni. Bisognava alzarsi presto per fare una ripassata degli argomenti studiati la sera precedente. Diveniva subito buio, ed era faticoso studiare con la fioca luce del lume a petrolio. I più puntuali eravamo noi che abitavamo vicino. Chi veniva da lontano spesso arrivava con molto ritardo. Date le oggettive difficoltà, la lezione si riduceva al minimo indispensabile. I più piccoli, che avevano bisogno di più attenzione per avviarsi a leggere e scrivere, si prendevano il maggior tempo.
Dato che ne rimaneva poco, di quello che la maestra poteva dedicare a ognuno, agli alunni più grandi, una volta ricevute le consegne, non restava che proseguire da soli I risultati, però, non furono del tutto negativi: noi grandi fummo spronati alla conquista di una maggiore autonomia e a comportarci con più responsabilità. Nei lunghi intervalli, tra un compito e l’altro, l’attività prevalente era il “disegno spontaneo”, in altre parole disegnare ossessivamente sempre gli stessi soggetti.
Per me significava tratteggiare all’infinito il volto di Garibaldi o di Mazzini; ricopiare la figura di Napoleone, raffigurato esultante su un bianco cavallo, o disegnare un’infinità di altri animali. Iniziai a leggere “I Promessi Sposi” che la maestra aveva con sé, ma non riuscii mai a finirlo perché lungo e “noioso”, a causa delle infinite descrizioni di luoghi e persone. Tra i pochi libri che riuscii a leggere per intero, furono “I Segreti di Parigi” e “Il Conte di Montecristo”, perché avvolti in quell’ quell’aria di mistero che colpiva la mia fantasia.

Se questa, per noi scolari, era la tipica giornata scolastica, come si svolgeva il resto del tempo? Da dedicare ai compiti rimaneva ben poco. Vuoi perché l’oscurità, d’inverno, giungeva in men che non si dica, e la tenue illuminazione del lume non consentiva un’applicazione sufficiente, vuoi perché bisognava aiutare i genitori nei lavori giornalieri. E’ da premettere che, per soddisfare le esigenze della famiglia, bisognava produrre in loco tutto quanto fosse necessario per alimentarsi. Non c’era disponibilità sufficiente, né negozi a portata di mano per acquistare il necessario per vivere. Necessitava produrre tutto con le nostre mani, dai prodotti vegetali, fino a quelli animali.
Si cominciava, in settembre, a piantare ogni genere di verdura: rape, cicorie, cavolfiori, finocchi, patate, etc. che, dai primi di dicembre, fino a maggio inoltrato, non cessavano di fornire le loro specialità. Si faceva moltissimo ricorso anche alle verdure selvatiche, che abbondavano copiosamente. Si produceva ogni genere di legumi e di cereali. Non mancavano le piante dei carciofi, il cui prodotto si prestava a essere conservato, sott’olio, per un anno intero. Sott’olio si conservavano anche i lambascioni, che si raccoglievano facilmente nei terreni incolti.
Nei mesi estivi era d’obbligo la coltivazione di zucchine, fagiolini, melanzane, peperoni e quant’altro. Per il bisogno di frutta, non c’era alcun problema. La saggezza dei contadini non conosceva imprevidenze. Usavano, diligentemente, dotare gli orti di ogni tipo di alberi, in modo che fornissero i frutti da maggio a dicembre: le mele maggioline, le ciliege, i fichi, ogni specie d’uva, castagne, sorbole; insomma decine di tipi di frutta, comprese le pere da conservare per i mesi invernali.
Il bisogno di proteine animali fu gradualmente soddisfatto in pochi mesi. Si cominciò con l’allevare qualche coniglio, una decina di galline, un maiale, un paio di caprette e, infine, una mucca da latte, acquistata ancora in tenera età. Come si può notare la famiglia era in grado di provvedere in piena autonomia a tutte le necessità alimentari. Per le altre spese, il vestiario, le tasse, l’acquisto di strumenti di lavoro e molto altro, bisognava alienare gran parte della produzione di olive, di fichi secchi, di qualche quintale di mandorle e il grano proveniente da alcuni ettari di terreno seminativo.
Per produrre tutto questo occorreva, evidentemente, molta manodopera oltre a quella dei genitori. Era necessario un aiuto supplementare. Mio fratello ed io dovemmo ben presto adattarci alla coltura dei campi e alla vigilanza delle bestie. Non che i nostri genitori avessero voglia di sottoporci a fatiche estreme, ma era inevitabile dare un apporto sostanziale alla produzione dei beni per la famiglia. Tranne qualche lavoro richiedente personale esperto, come la potatura degli ulivi, l’innesto delle viti, la macellazione annuale del maiale, tutto il resto era a carico di tutti i suoi membri. A noi ragazzi, qualche volta anche da soli, toccava portare gli animali al pascolo, raccogliere i vari prodotti, zappare la vigna. Quanto tempo rimaneva per studiare? Poco o niente.

Al termine dell’anno scolastico iniziava, per me e mio fratello, un supplemento di lavoro. Allo spuntare dell’alba si cominciava col badare alle bestie, curare la vigna, raccogliere i frutti. I miei genitori, preoccupati di non farci esporre troppo al sole, non appena i raggi si facevano infuocati, ci facevano smettere per consumare insieme la colazione, a base di “cialledda fredda”, al riparo sotto un fresco pergolato, accompagnati dal canto monotono delle cicale. Mia madre subito dopo, cominciava a pensare al pranzo. Si alternavano orecchiette, “capunt’”, patate e zucchine, melanzane ripiene, carciofi, pasta e legumi, le verdure più varie, insomma tutto ciò che la terra offriva. Non mancava mai il piatto delle lumache che nei mesi estivi abbondavano nei canneti.
Per me e per mio fratello era il periodo più bello. Dopo qualche ora di sonno, mi rintanavo nell’angolo più fresco della casa e mi dedicavo alla lettura. Libri per ragazzi che “rifilavo” a mio nipote, libri in prestito da amici e conoscenti; l’Intrepido, fumetto che i miei compravano per noi ogni settimana; tutto quello che riuscivo a procurarmi con gli stratagemmi più vari: romanzi di “Sogno”, il Grand’hotel, la settimana enigmistica.
Nel primo pomeriggio si consumava il pasto e si tornava al lavoro. Con la temperatura che diveniva sempre più fresca, era un piacere dedicarvisi. Si smetteva solo quando lo stridio dei grilli annunciava la fine del giorno. Si riponevano gli attrezzi, si sistemavano gli animali e si andava a cena. Si era d’estate e il tempo passava velocemente. Cascavamo tutti dal sonno e bisognava andare subito a letto perché l’alba non si sarebbe fatta attendere.

Erano davvero anni difficili per tutti. Pochissimi si potevano permettere una vacanza; il mare lo si guardava solo in cartolina. Di viaggi e gite, neanche a parlarne. Per molti la vacanza consisteva nel trasferirsi, nel mese di settembre, in campagna con tutta la famiglia. In estate la festa più attesa era la sagra della Porticella. La festa si svolgeva – e si svolge tutt’ora – nella seconda domenica di settembre, in una chiesetta a pochi chilometri dal paese. Tutti si recavano sul posto, con i mezzi più disparati - a piedi, con asini, muli, in bicicletta, i più abbienti in calessino - per assistere alla messa e alla processione.
Quest’ultima compiva un lungo giro nell’ampia radura antistante e terminava col la messa dinanzi alla chiesa. Per noi ragazzi era un’occasione di grande divertimento. Aspettavamo quel giorno in trepida attesa. A pranzo si usavano preparare polli ripieni – a noi ragazzi toccavano solo teste, ali e piedi - orecchiette al sugo di pomodoro fresco, e tutto quello che si conservava per l’occorrenza. La mamma, già dal giorno prima lavava e stirava le usurate camicie bianche, col ferro a carbone.. Le scarpe, in mancanza del lucido adatto, si tingevano con i residui di fumo del camino.
Appena finito il pasto, si partiva con la gioia nel cuore. Tutto il contado, in un unico drappello, partiva di gran carriera. Per strada, un tratturo che, all’occorrenza, il comune provvedeva a far spianare, si formava una lunga fiumana di gente festosa. Per noi ragazzi, il divertimento maggiore consisteva in una scorpacciata di derrate alimentari che abbondavano sulle bancarelle di venditori improvvisati: noccioline americane, castagne “del prete”, “gazzose”, lupini e mandorle tostate. Per un altro giorno di baldoria, bisognava attendere l’anno successivo.

Apro un’altra parentesi per descrivere un avvenimento cui avevamo partecipato fin da piccoli: la raccolta del grano. Per l’occasione tutta la famiglia si trasferiva in un podere ai confini col territorio di Grottole. Dal grano provenivano i proventi più cospicui per le necessità maggiori. Erano gli anni a cavallo tra la mietitura tradizionale e l’uso delle prime mietitrici. L’ultimo anno che si mieté a mano, lo ricordo con grande nostalgia. Gli uomini che formavano la “paranza”, armati solo di falci affilate, il cappello di paglia calato sulla nuca, piegati su se stessi, dalla mattina all’alba, col solo intervallo di mezzogiorno, procedevano compatti al taglio dei lunghi steli di grano. Grondanti di sudore, ma veloci nelle bracciate, gridavano e cantavano per darsi coraggio e vigore.
Noi ragazzi badavamo a porgergli, a brevi intervalli, l’acqua fresca che attingevamo dal pozzo. Con l’acqua si offriva del buon vino, tenuto fresco in un barilotto di legno, “lu iascariedd”, che serviva a lenire la fatica. A sera, dopo una giornata di fatica, tutti insieme, alla fioca luce delle lampade a petrolio, sul piazzale antistante ai locali della masseria, ci si raccoglieva intorno a tavoli messi su alla meglio e si consumava la cena, quanto di meglio il “padrone” poteva offrire: enormi piatti di tagliatelle preparate a mano da mia madre, fumanti frittate di zucchine appena raccolte, peperoni e baccalà, fritti in quantità.
Non mancavano salsicce, ventresche, formaggio, pane a volontà. In cerchio, si prendeva il cibo dagli “spasoni”, nei quali ognuno si ritagliava l’angolo da cui attingere. Il vino la faceva da padrone. I racconti di episodi divertenti allietavano la serata. Noi ragazzi cascavamo dal sonno ed eravamo i primi a stenderci sui duri sacchi di paglia. Al mattino ci volevano davvero le cannonate per svegliarci. I mietitori dormivano nei posti più impensati, o al chiaro di luna.
Terminata la mietitura, si procedeva ad ammassare i covoni in un’unica grande bica. Fino all’anno appena descritto, la battitura delle messi si praticava col vecchio sistema della “girandola” delle bestie: due muli maschi avanti, una femmina dietro. Il metodo richiedeva una sequenza di operazioni consolidate attraverso i secoli.
Per prima cosa bisognava individuare una zona idonea, vicino ai caseggiati e molto ventilata. Se ne circoscriveva una parte, a forma di cerchio, e si proseguiva col bagnarla e batterla più volte, per rendere il terreno duro e compatto. L’aia era pronta. Sparsa nella pista la quantità sufficiente dei fastelli del grano, vi si facevano entrare le bestie, opportunamente bendate per evitar loro dei capogiri, e la girandola cominciava. Al centro mio padre, o chi per lui, spronava gli animali a girare intorno. All’inizio si procedeva a rilento, per le difficoltà che incontravano i muli nel superare gli ostacoli.
Man mano che l’andatura aumentava, era necessario che chi guidava l’azione, si mettesse a cantare di buona lena per sostenere il ritmo dei quadrupedi. Qualche volta mio padre permetteva a noi ragazzi di provare a condurre la “giostra”, con quanto divertimento e gioia da parte nostra. L’operazione richiedeva non meno di due o tre ore, fino a quando gli steli si riducevano in paglia, e le spighe liberavano tutti i chicchi del grano.
Seguiva la fase della separazione del frumento dalla paglia. Con grandi forconi, si sollevavano, controvento, mucchi di paglia e grano, in modo che la pula volasse via e il grano ricadesse sul terreno. Si era fortunati se la giornata riusciva ventosa; altrimenti occorreva un bel po’ di tempo, prima che si potesse ricominciare con una nuova pestatura. Il lavoro terminava col setacciamento e la raccolta del grano in capienti sacchi di iuta. Tutta l’operazione, in genere, si svolgeva per tutto il mese di luglio e, secondo le condizioni atmosferiche, anche oltre. Non appena si diffusero le nuove macchine, il vecchio sistema fu completamente abbandonato. Sorsero nuovi imprenditori che, acquistate le prime trebbiatrici, si misero al servizio degli agricoltori.
Ahimè, la tecnologia era ancora imperfetta, e la difficoltà di far giungere i mezzi nei luoghi più impervi creò non pochi inconvenienti. Un piccolo incidente si avvenne proprio nel nostro terreno. Una trebbiatrice, tirata da quattro buoi nerboruti, mentre si dirigeva verso la nostra masseria, a causa di un dislivello della carreggiata, si rovesciò su se stessa e provocò la morte di uno degli animali. Di là delle prime difficoltà, la meccanica dei mezzi fu presto perfezionata. Ai buoi subentrarono i trattori, le trebbiatrici divennero sempre più efficienti e le moderne mietitrebbie rivoluzionarono completamente i sistemi di raccolta delle messi.
L’evoluzione della tecnica ha permesso di sottrarre l’uomo dalla fatica, ma lo stato d’animo e l’atmosfera di grande socialità che si creava intorno a quegli eventi, non si ripeteranno più. Era un concorso di uomini e donne, impegnati nell’impresa di procurare un alimento vitale per l’uomo, in un clima festoso e sereno. Gli uomini, coperti di pula che fuoriusciva dalle macchine, non smettevano di conservare il buonumore, soddisfatti per il raccolto andato a buon fine; le donne facevano a gara per cucinare il meglio delle loro specialità e fornire di continuo acqua fresca, appena attinta dal pozzo, agli operatori accaldati.
Nel momento del pranzo e della cena, si rinnovavano le serene atmosfere che abbiamo visto ripetersi nelle operazioni della mietitura e trebbiatura tradizionali; era un susseguirsi di scambi di battute e di avventure da raccontare. Noi ragazzi non perdevamo una sola parola di quei racconti. Tra un bicchiere e l’altro, si finiva a notte inoltrata. I giacigli si ricavavano su pagliericci improvvisati, o sotto le stelle Per noi bambini non v’era nulla di meglio per fare esperienze indimenticabili. Non temevamo di avvicinarci alle macchine e di inzupparci i capelli di pula. I genitori, opportunamente, avevano badato a farci rapare a zero. Il divertimento maggiore era tuffarci nel fienile dove era raccolta la paglia per alimentare gli animali d’inverno.

Così passavano le estati, fino a quando il terreno fu ceduto in fitto. A questo punto inizia il secondo anno di scuola rurale. Il nuovo maestro, il compianto Pino Mercurio, è anch’egli alla prima esperienza d’insegnamento. Mio fratello ed io, superati gli esami di quinta, ci iscriviamo alla sesta classe. Forse per assicurare un numero sufficiente di alunni, o per chissà quale motivo, ci fu garantita la validità istituzionale delle classi successive alla quinta. Nonostante la buona volontà del maestro, l’esperimento fu alquanto deludente. Furono anni ripetitivi e noiosi. Non esisteva alcuna forma di programmazione, né di contenuti, né di metodi, che giustificassero l’innalzamento degli anni post-elementari. Tutto si ridusse a ripetere all’infinito i programmi della quinta.
Il “povero” maestro, a inizio di carriera e con le difficoltà proprie della pluriclasse, non poté certamente fare miracoli. Veniva a scuola in bicicletta. Nei giorni freddi e piovosi, non sempre riusciva a rispettare l’orario, ma faceva in modo da rimediare ai ritardi, col fermarsi qualche tempo più del dovuto. Spesso e volentieri – per la nostra gioia – ci esortava ad aiutare i più piccoli. Senza saperlo, si applicava la moderna didattica del “cooperative learning”. Tutto sommato, l’opera del maestro fu positiva per tutti, compresi i due alunni di prima classe, tra cui un mio nipote di Matera, che riuscirono a conseguire risultati più che sufficienti nella lettura e nella scrittura.
Solo un paio di volte, in tre anni, ci fu la visita del Direttore. Era un uomo sulla cinquantina, di media statura e piuttosto robusto; dall’aspetto burbero e severo, ma di una tale bontà d’animo, da rimanere per sempre nei nostri ricordi più belli. Si chiamava Giovanni Agneta. Poiché non possedeva la patente di guida, veniva da Ferrandina con i mezzi più diversi: una macchina a noleggio, o accompagnato da parenti o amici.
L’anno successivo ebbe l’incarico il maestro Filippo Montemurro. Anch’egli in bicicletta. Col cattivo tempo anche a piedi. Era un maestro molto stimato in paese. I risultati, date le immutate condizioni della scuola, non furono molto diversi. Senza programmi ben definiti e col poco tempo da dedicarci,non poté aggiungere granché alle nostre conoscenze – mi riferisco agli alunni della settima classe. Premesso che il rispetto e la stima non sono mai venuti meno, due ricordi di lui mi affiorano ancora nella mente. Il primo rivela un atteggiamento di scetticismo nei confronti della scienza.
Era l’anno del primo lancio sovietico nello spazio, per preparare il futuro sbarco dell’uomo sulla luna. Forse per esprimere un’opinione originale, il maestro affermò con estrema sicurezza: << Loro andranno sulla luna e io sarò papa >>.Il secondo episodio mi riguarda piuttosto da vicino e ne sento ancora “fisicamente” le conseguenze. Dopo aver allestito, per l’avvicinarsi del Natale, il presepe in un angolo dell’aula, di fronte a tutta la classe, me ne uscii con un’espressione alquanto spiritosa: quant’è brutto! Senza rendermi conto della provenienza e della rapidità del gesto, mi si stampò in faccia un sonoro ceffone che è rimasto indenne nella memoria.
Non nutro alcun rancore nei confronti del maestro, però il segno è rimasto indelebile nella mia mente, forse perché fu l’unico che ho collezionato in tutta la mia carriera scolastica. Il buon maestro, costretto dalla mia provocazione, e dai metodi educativi all’epoca in vigore, non poté fare a meno di dare un esempio di “pedagogical correct” agli altri scolari. A suo merito, però, devo riferire un altro episodio che contribuì a farmi perdonare il suo gesto.
A me che non ho mai posseduto una bicicletta, permise di utilizzare la sua durante gli intervalli e alla fine delle attività scolastiche. Ogni giorno, prima di scoccare l’orario di chiusura, mi autorizzava a portare la bicicletta in cima alla rotabile. Io approfittavo per fare delle corse pazzesche che compensavano la fatica sopportata per spingerla sopra. Dopo qualche anno il maestro si traferì a Bari con la famiglia, dove completò la sua carriera d’insegnante. E’ mancato pochi anni fa.

L’ultimo anno, in pratica l’ottavo, fu utilizzato esclusivamente per prepararci agli esami di ammissione alla scuola Media. Ci preparò il maestro Mercurio che raggiungevamo ogni giorno in paese. Fummo promossi con ottimi voti, in attesa di frequentare, l’anno successivo, le scuole medie di Matera. Quale bilancio trarre da quei “tre anni buttati al vento”? Persi senz’altro, ma ricchi di tante esperienze positive. Provammo dal vivo la dura fatica dei campi nel rapporto edificante con le persone più umili. La mattina a scuola; al pomeriggio, di compiti a casa nemmeno a parlarne. Eravamo obbligati e fieri di partecipare alla coltivazione della terra e alla cura degli animali.
Talvolta aiutavo mio padre ad arare i campi; mio fratello curava maggiormente le bestie; insieme a mia madre, entrambi zappavamo la vigna. Tutti si doveva portare avanti la “baracca”. Se tutto quello che la terra produceva, bastava a soddisfare i bisogni alimentari della famiglia, ben altro occorreva per assicurarle un minimo di vita dignitosa. I prodotti che eccedevano lo stretto necessario per vivere, bisognava raccoglierli, curarli e venderli. C’era bisogno di denaro per acquistare indumenti, strumenti di lavoro, medicine, pagare i debiti, etc.
Per tutta l’estate, e non solo, si era tutti impegnati nella raccolta dei frutti. S’iniziava subito, in luglio, con la raccolta delle mandorle: con delle lunghe verghe, si battevano i rami in modo che cadessero per terra; si raccoglievano in sacchi di canapa e portate al riparo. A sera, seduti in cerchio, liberavamo i gusci legnosi dal mallo, per esporle, qualche giorno, al sole e farle asciugare. L’operazione durava dai quindici ai venti giorni, secondo le annate. Si riusciva a venderne non più di 4/5 quintali per anno.
Terminata quella delle mandorle, iniziava la raccolta dei fichi. La più lunga e impegnativa perché si protraeva per tutto agosto e settembre. Si raccoglievano man mano che maturavano e asciugavano sulla pianta. Una volta colti, bisognava spanderli sugli appositi “cannizzi” e lasciarli essiccare al sole. La parte migliore si farciva con le mandorle;fatta indorare nel forno, e venduta. Di quella rimanente, una quota si vendeva semplicemente essiccata, la più scadente, indorata nel forno e ceduta ai commercianti con meno profitto.
Ovviamente, non tutto era dato via; la famiglia se ne riservava una buona quantità, per la merenda quotidiana. Per la fatica che richiedeva e per il lungo protrarsi, la raccolta dei fichi era alquanto uggiosa e laboriosa. Due mesi, e forse più, di lavoro duro. Finita la campagna dei fichi, subito un'altra dura fatica si profilava all’orizzonte: la raccolta delle olive. S’iniziava col raccogliere quelle che cadevano a terra spontaneamente. Secondo le condizioni del tempo, l’operazione andava ripetuta più volte. Non appena se ne raccoglieva una quantità sufficiente, si provvedeva a venderle, allo scopo di racimolare qualcosa per acquistare libri ,quaderni, pennini e astucci, cartelle di cartone pressato per la scuola.

La raccolta vera e propria iniziava intorno alla metà di novembre e proseguiva, talvolta, fino ai primi di gennaio; non perché la quantità fosse esuberante, solo perché si doveva risparmiare il costo della manodopera esterna. La frequenza scolastica ovviamente si riduceva ai soli giorni di cattivo tempo. Del resto non serviva quasi a niente ripetere all’infinito gli stessi programmi. Nei giorni pieni di sole era un piacere salire sugli alberi e sfilare dai rametti il prezioso frutto. Terminata la sfilatura, si raccoglievano le olive dalle coperte e si riempivano i sacchi. Così per giorni. Ci si concedeva una pausa solo a Natale e Capodanno.
Alla fatica del giorno, per me, andava aggiunto un altro impegno. Il supplemento di lavoro non mi dispiaceva per niente, anzi lo accettavo volentieri. Ogni volta che se ne raccoglieva una quantità sufficiente per un carico di mulo, bisognava portarla al trappeto per la molitura. Avevo dodici anni. Ero già capace di scaricare da solo i sacchi, liberare la bestia dai vari orpelli e sistemarla nella stalla per la notte. Alla base della mia infinita disponibilità a sottopormi a una fatica supplementare, c’era un obiettivo ben preciso: sfruttare l’occasione per andare, la sera, al cinema. La campagna delle olive coincideva, quindi, con quella del cinema.
Era tanto grande la mia passione per il cinematografo, da farmi superare qualsiasi fatica. Fu quello il periodo dei grandi film popolari: La Corona di ferro, Achtung! Banditi! Il Terzo uomo, interpretato dal grande Andrea Checchi. Quelli che, attiravano una gran massa di gente, erano i capolavori di Raffaello Matarazzo. Cinema dai risvolti drammatici e commoventi: I figli di nessuno, Catene, Tormento, L’Angelo bianco. Interpreti indimenticabili, Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson; tanto bravi da indurre tutta la platea in lacrime.
Talvolta in paese si fermava per intere settimane una piccola compagnia di teatro. Per passare una serata in allegria, la gente accorreva in massa: famiglie al completo, fidanzatini con genitori al seguito, intere comitive di giovani. Del resto, non vi erano altre opportunità ricreative che ci si potevano permettere. Non erano compagnie di alto livello, e il costo del biglietto era alla portata di tutti. Pur potendo permettermi qualche soldo, io non pagavo quasi mai. Primo perché il padrone del cinema era un parente-zio acquisito;secondo perché il costo del biglietto me lo guadagnavo col mio “lavoro”. Prima e durante lo spettacolo, giravo per la platea a vendere caramelle, gassose e bustine di ceci arrostiti. Il ricavato andava tutto alla figlia del proprietario.
Era una festa collettiva. Se lo spettacolo era piaciuto, tutti andavano via soddisfatti; se era stato deludente, le imprecazioni si sprecavano: “abbiamo buttato 50 lire; ma che schifezza hanno fatto venire”. Senza parlare delle proteste che si levavano dalla platea quando lo spettacolo non iniziava in tempo o, cosa che spesso accadeva, si verificava un’interruzione della pellicola. Tutti a gridare: “Orario! Orario”! E fischi a non finire. La sala era stata ricavata dal refettorio del vecchio convento. Non era riscaldata e, per giunta piena di spifferi; col bel tempo non c’erano problemi; nei giorni duri dell’inverno, il freddo era insopportabile. Molti si portavano da casa coperte di lana, vecchi mantelli e sciarponi pesanti dei nonni.
Che tempi! Quanto entusiasmo per niente e quanta spensierata baldoria! A fine spettacolo, di corsa a casa. Davo un’ultima manciata di paglia al mulo e, di filato, a letto; ero solo. Talvolta, se il film conteneva qualche scena di paura, mi rintanavo nel fondo del letto e, per “precauzione, ” recitavo un Padre Nostro. L’indomani mattina, alla tenue luce dell’alba, bisognava levarsi e andare. In groppa al mulo, col berretto calato e la “sciarpetta” ben stretta sul viso; ma contento. Il futuro era tutto davanti.

Appena in campagna, si riprendeva il lavoro. Nelle giornate di sole, tutto il vicinato si riempiva di voci festanti. Le grida si propagavano da un capo all’altro della contrada per chiamarsi, “sfottersi” e comunicarsi le notizie più frivole. In un podere vicino, un simpatico e fervente comunista non smetteva mai di cantare “Bandiera rossa, la trionferà”. A furia di sentirla per giorni interi, mi rimbomba ancora oggi nelle orecchie. Non nascondo che, quelle prime esperienze hanno non poco influito sulle mie future scelte politiche.
Spesso, nel nostro podere, si incontravano braccianti e contadini della zona. Tra le tante discussioni, si finiva sempre per protestare contro il governo “infame”, contro i “forchettoni” e gli sfruttatori della classe operaia. Il motto più diffuso era: “addav’nì Baffon’”. Qualche anno prima mi era capitato di assistere a un episodio carico di tensione. Un gruppo di uomini cercò, nottetempo, riparo nel nostro casolare per sfuggire alla cattura dei carabinieri. Erano alcuni dei tanti braccianti che partecipavano all’occupazione dei terreni demaniali. Erano episodi che si ripetevano di frequente in tutto il territorio lucano.
Il più grave si consumò a Montescaglioso con l’uccisione di Giuseppe Novello, nella notte del 14 dicembre 1949. L’atmosfera di mistero e di oscuri presagi lasciò nel mio animo una traccia indelebile delle ingiustizie e delle vessazioni che subiva da sempre il popolo lucano. Quelle esperienze dolorose e drammatiche hanno non poco incoraggiato il mio impegno civile in difesa dei più deboli e per l’emancipazione delle classi sociali più emarginate.
Col passare degli anni, molto è cambiato da allora. Le condizioni di vita sono decisamente evolute. La scolarità si è diffusa a ogni livello; si sono moltiplicati i mezzi di informazione; sono migliorati l’alimentazione, l’abbigliamento e le occasioni di svago. Molti figli di contadini e braccianti sono divenuti professionisti affermati. Merito di quei governi che hanno saputo accogliere i bisogni reali del popolo esasperato., che rivendicava a gran voce il riscatto dalla povertà. Merito anche della lotta di quei partiti che avevano come obiettivo prioritario l’uguaglianza, la giustizia, la democrazia. Merito soprattutto del popolo intero che, negli anni sessanta, ha lottato con tutte le sue forze, per rivendicare lo sfruttamento del metano in val Basento.
Tale sfruttamento ha permesso la costruzione di due importanti industrie – la Pozzi e l’ANIC – le quali, nei decenni passati, hanno innescato un volano di progresso economico e sociale per l’intera Basilicata. Tutto risolto, dunque? Nient’affatto. Le industrie si sono chiuse e il progresso si è fermato. Le disuguaglianze si sono accentuate e le Istituzioni sono diventate autoreferenti. Il lavoro, per molti, rischia di rimanere solo una chimera. Che fare? Non è questo il luogo di affrontare il problema. Una considerazione la voglio comunque fare. Anche quelle forze politiche nelle quali abbiamo riposto tutte le nostre speranze, che promettevano giustizia, uguaglianza, lavoro per tutti, sembrano cadute nel vortice degli interessi privati.
La lotta per il potere, la corruzione generalizzata, l’arrendersi ai potenti gli hanno fatto smarrire l’unico obiettivo da perseguire: il bene del popolo. E’ una constatazione amara ma, doverosa. Se quei contadini e braccianti, che versarono il sangue, per strappare i propri diritti, potessero rendersi conto dello sfasciume attuale, griderebbero al tradimento. La speranza di una vita migliore mi dava, allora, la forza e il coraggio di affrontare i sacrifici che mi si prospettavano davanti . Avevo una segreta aspirazione: trasferirmi a Torino e farmi assumere come meccanico alla FIAT. Era il massimo cui poter aspirare in quelle circostanze.

Terminata la raccolta delle olive, si tornava a scuola; solo quando non c’era molto da fare. I giorni passavano col ritmo di sempre. Non vi erano distrazioni alcune; tranne la lettura dei fumetti e qualche libro procurato chissà dove, non c’era modo d’informarsi su quanto stava accadendo nel mondo. L’unico giornale che veniva spedito a mio padre, era il Bollettino del Coltivatore, che divoravo in un attimo. Le notizie che giungevano dall’esterno e che suscitavano qualche curiosità, si riferivano ai piccoli fatti accaduti in paese o nei comuni vicini: hanno rubato le pecore dalla tale masseria; un contadino è caduto dall’albero; a Grottole un pastore è stato azzannato da un cinghiale, e via di questo passo.
Nelle sere buie d’inverno qualcosa di bello succedeva. Si era soliti riunirsi con i vicini nella nostra dimora, per tenersi un po’ di compagnia accanto al fuoco del camino. Si parlava di esperienze passate, di problemi da affrontare,di annate andate male. Ma c’era qualcosa che incuriosiva e faceva volare la fantasia di noi ragazzi. Due simpatici “contastorie”, ciascuno a modo suo, durante le visite, dimostravano tutta la loro perizia nel raccontare le storie più accattivanti.
Ricordo i nomi. Gerardo Cirella, un vecchietto che viveva con la moglie in un piccolo podere confinante col nostro; in una casetta di pochi metri quadrati, ma sufficiente a ospitare due umilissime persone. Non avevano altre esigenze che alimentarsi con un tozzo di pane o una “pignatta” di legumi. L’altro contastorie, Cosimo il “Leccese”– il cognome mi sfugge - trasferitosi con la famiglia a Salandra, era approdato, successivamente, nell’azienda di Santarcangelo, dov’era ubicata la suola.
Erano poveri, ma sapevano comunicare emozioni. Avevano appreso le storie, nella loro fanciullezza,da chissà quali altri “artisti”. Cominciavano col suscitare la curiosità e l’attenzione avvertendo i presenti di non farsi prendere dalla paura che la storia poteva provocare. La frase iniziale, quella con cui iniziano tutte le storie: c’era una volta. Le espressioni che si ripetevano in quasi tutti i racconti: in una notte buia e piena di vento… cammina, cammina… appare una luce lontana…bussano alla porta, toc, toc. Ognuno terminava con la solita chiusura: larga la fronte, stretta la vita, contate la vostra che la mia è finita. Quanta fantasia e immaginazione affollavano la nostra mente! I pensieri volavano nei paesi più lontani e misteriosi.
La fonte della “conoscenza” non si limitava, però, all’ascolto delle favole; spesso i presenti chiedevano a noi ragazzi di leggere qualche passo della Bibbia, soprattutto del Nuovo Testamento. Era un’edizione popolare, illustrata alla maniera dei fumetti, recuperata chissà come, ma utile a tenere vivo il sentimento religioso. Durante il giorno, il tempo era scandito da una vecchia sveglia che non era mai a portata di mano; il vero susseguirsi delle ore era dato dai “postali” della SITA che, ad orari regolari, transitavano sulla rotabile.
Ci si alzava col passaggio del primo che andava verso Matera; si desinava al suo ritorno; si cenava dopo l’ultimo transito. Qualcosa cambiò quando mio cognato regalò una radio a transistor a mio padre. Ben presto cominciammo a seguire i giornali radio, le previsioni del tempo, i notiziari regionali. Fino a quando non fu trasmesso quello della Basilicata, nei primi anni ’60, ascoltavamo il notiziario pugliese, mandato subito dopo pranzo. Alla fine andava in onda un noto programma, in dialetto barese, che divertiva tutta la famiglia. S’intitolava “La Caravella”. I protagonisti erano “Colin’ e Mariett’”, due popolari comici che suscitavano tanta ilarità e simpatia. Un altro appuntamento, molto atteso, era il Festival di Sanremo. Per tre lunghe serate, in compagnia di tutto il vicinato, si ascoltavano, senza perdere una nota, gli acuti del “Claudio nazionale” e le melodie della “signora della canzone”, Nilla Pizzi.

Un evento molto vissuto nel mondo contadino, nei tempi a cavallo tra i due conflitti mondiali, era la ricorrenza del Carnevale. A sera, contadini e braccianti, dopo la fatica del giorno, si mascheravano alla meno peggio e s’incamminavano verso il paese per prendere parte alle sfilate collettive che duravano fino a notte inoltrata. Al termine della baldoria, tra canti e balli al suono della “cupa cupa”, si dava fuoco al pupazzo di carnevale. In seguito la ricorrenza ha assunto forme di espressione ispirate al dilagante consumismo, che non hanno nulla a che vedere con la spontaneità, l’armonia e la spensieratezza di un tempo
Non posso non accennare all’avvenimento più importante e diffuso fin quasi ai nostri giorni. Tutti crescevano in famiglia almeno un maiale, acquistato generalmente alla fiera di agosto, o di ottobre. Quando l’animale, ben cibato, raggiungeva il massimo del peso, si chiamavano i macellai per sopprimerlo. Aspettavamo quel giorno con trepidazione indicibile. Per noi ragazzi era l’avvenimento più atteso dell’anno, vuoi perché la cosa suscitava un’eccitazione unica, vuoi perché finalmente si cominciava a mangiare qualcosa di buono. Il boccone più prelibato era il famoso “sanguinaccio”, una sorta di crema dolciastra che si ricavava dal sangue del maiale subito dopo avergli fatta la “festa”. Una leccornìa che durava un bel po’ di giorni.
Il “rito” si svolgeva in questo modo: di buon mattino arrivava l’esperto armato di coltellacci e seghe; quattro paia di braccia robuste afferravano la bestia e la stendevano su un tavolaccio inclinato verso il basso. Tra le urla disumane e i tentativi di sfuggire alla presa, il “macellatore”, infilava il coltello nella gola del malcapitato e lo rigirava, fino a quando non dava più segni di vita. Il sangue, appena raccolto, era trattato per non farlo aggrumare. Una volta che il maiale aveva esalato l’ultimo respiro, si bagnava con acqua bollente per raschiargli le setole.
Terminata questa prima operazione, l’animale era appeso a un robusto chiodo e lasciato ad asciugare tutta la notte. L’indomani tornava il macellaio per sezionarlo in mille parti. Separava il lardo dalla ventresca, i prosciutti dalle parti meno pregiate, e così di seguito. Del maiale non si buttava niente, tutto era – ed è tuttora - utilizzabile. Allontanatisi gli esperti, iniziava il lavoro di casa: salare le parti grasse, tagliuzzare a mano la carne per farne salcicce e soppressate. Quando tutto era ben sistemato, si passava a preparare il sanguinaccio.
I lettori penseranno che, finalmente, iniziava un periodo di scorpacciate per tutta la famiglia. Ahimè, non era proprio così. Era pur vero che un assaggino toccava anche a noi di tutto quel ben di Dio, ma la parte migliore prendeva un'altra direzione. Una discreta quantità era venduta per racimolare un po’ di denaro; il resto, tra soppressate e salsicce come da sempre è accaduto che i migliori prodotti dei cafoni se li son gustati i “galantuomini” - finiva, non retribuito, sulla tavola di lor “signori”, con la scusa di aver prestato qualche piccolo servigio alla famiglia.
La parte del leone la faceva il medico di famiglia. Era tanto buono che non si pagava mai per le visite domiciliari. Le migliori soppressate, le salcicce più curate erano destinate a lui. Non bastavano, però. <<Commà…ho il desiderio di quelle belle olive nere che sai curare con tanto amore>>. Pronto il pacco delle olive al dottore. <<Commà…quel bel galluccio che mi portasti il mese scorso è tanto piaciuto alla signora>>. Subito due polli al dottore. I percochi più belli, i fichi secchi con le mandorle, i grappoli dorati dell’uva “particolare”, le noci saporite dell’orto, i carciofini sott’olio, il dottore tutto gustava. Però, ti curava gratis! A noi ragazzi del “porco” rimanevano solo il lardo, un po’ di ventresca e le cotiche.

Non ricordo che il bravo dottore sia mai venuto a farci visita in campagna, in caso di malattia. I rimedi bisognava procurarceli da soli. Per le ferite da taglio, si usava un impacco di una varietà di cicoria campestre, capace di rimarginare la ferita in pochissimi giorni; per il mal di stomaco, si ricorreva a decotti di malva e di salvia; per la febbre, camomilla e impacchi di acqua fredda. La settimana che rimasi a letto per “l’asiatica”, feci una tale ingestione di camomilla, da ricordarmela per tutta la vita. Bisognava star bene per forza, e fare economia su tutto. Le calze, le maglie per l’inverno le sferruzzava mia madre alla sera; i fazzoletti per il naso li ricavava dalle camicie dismesse; i buchi nei pantaloni li chiudeva con le toppe. Quando bisognava dismettere, necessariamente, un indumento, aveva cura di recuperare tutti i bottoni. Perfino il sapone sapeva fare in casa.
Meno male che ogni tanto arrivavano i pacchi dall’America, pieni di biancheria dismessa dai parenti lontani. Sogno ancora una cravatta, la prima che ho usato fino all’età giovanile. D’all’America arrivavano anche riserve di alimenti – carne in scatola, confezioni di burro, cioccolato, brodini – che, a merito delle chiese cattoliche e protestanti, erano distribuite a chi ne facesse richiesta. Il Piano Marshall mostrava i suoi effetti migliori. Ho voluto dilungarmi in particolari perché si potessero toccare quasi con mano le ristrettezze inenarrabili, che la gran parte del popolo ha sopportato nel periodo appena descritto.

La mia vita di “scolaro di campagna” volge così al termine. Rimane da fare un cenno all’ultimo anno del triennio. Fu utilizzato per preparare l’esame di ammissione. Come ho di sopra premesso, ci preparò il maestro Mercurio, con ottimi risultati. Eravamo pronti per la frequenza della scuola Media di Matera. Si passò così dall’uso del pennino a “lampone” a quello della penna stilografica. Le biro non erano ancora in commercio. Dalla prima media, all’ultimo anno delle superiori siamo stati a casa di mia sorella, a Matera. La scuola in campagna proseguì per altri due anni, tenuta dalle insegnanti Fiorentino prima, e Margherita Cancro, mia compagna in quarta elementare.
Come anticipato nella premessa, l’esperienza della scuola rurale l’ho vissuta anche come insegnante. Terminato il servizio militare, ebbi la nomina in ruolo in un plesso delle campagne di Rotondella. Era l’anno 1970. Nei territori intorno c’erano altre scuole rurali; a me toccò quella di S. Laura, situata a circa 6/7 chilometri dal paese. Il locale della scuola, di una ventina di metri quadri, era stato adattato in una vecchia stalla. alcuni banchi e una vecchia lavagna, gli unici sussidi didattici. Era frequentata dai consueti undici alunni, il minimo per tenere aperta la scuola. Senza servizi igienici. Per i bisogni urgenti, solo per le femminucce, si era resa disponibile una famiglia che abitava al piano di sopra.
Come in tutte le scuole simili, le classi andavano dalla prima alla quinta. Io ero ai primi anni d’insegnamento e sentivo il bisogno di acquisire al più presto una buona pratica didattica. Mi detti subito da fare; fui fortunato ad avere quasi tutti gli alunni provenienti da famiglie benestanti ed emancipate, proprietarie di grandi aziende sparse nei dintorni. I ragazzi erano tutti motivati e rispondevano positivamente agli stimoli del maestro. Naturalmente l’attenzione maggiore la riservavo ai due bambini della classe prima, perché i più grandi potevano cavarsela anche da soli.
Grazie alla generosità di una famiglia che abitava nei pressi, mi fu offerta la possibilità di alloggiare presso la propria tenuta. Per qualche tempo, tornavo a casa solo alla fine della settimana. Ben presto, però, il disagio e la noia mi assalirono, e decisi di viaggiare ogni giorno. Avevo da poco acquistata la prima Cinquecento. Partivo alle sette di mattina e tornavo a casa alle tre del pomeriggio. Centoventi chilometri all’andata, centoventi al ritorno. Per fortuna non mi annoiavo, perché a me si aggregarono altre due colleghe che andavo a prendere e riportare a Bernalda.
Devo confessare, però, che quella prima esperienza non fu proprio esaltante, non per colpa mia, né per i disagi ch’essa comportava; spesso ero “costretto” ad assentarmi per non brevi periodi perché sollecitato da qualche superiore. Bisognava favorire una supplente che aveva un bisogno estremo di lavorare. Non vuol essere una critica nei confronti di alcuno, ma la costatazione che, a quel tempo, la vita richiedeva il ricorso a simili sotterfugi. In ogni modo l’anno scolastico terminò con la soddisfazione di alunni e genitori.

Giunti al termine di questo lungo percorso, provo a fare un bilancio della mia esperienza di vita e di alunno nella scuola di campagna. Dal punto di vista dell’apprendimento, fino al termine della classe quinta, non ho alcun rilievo da fare. Tutto era proseguito con estrema regolarità e col massimo profitto, per merito di Insegnanti bravi e capaci. Il triennio successivo, per le ragioni che ho di sopra esposto, non dette alcun risultato concreto. Fu solo una perdita di tempo e un ripetere, fino alla noia, gli stessi argomenti; non per colpa degli insegnanti, ripeto, ma a causa delle condizioni nelle quali erano costretti a operare.
Un giudizio più articolato voglio riservarlo alle esperienze di vita agreste che mio fratello ed io fummo costretti a fare. Il contatto diretto con la natura e col mondo animale fu senza dubbio salutare e proficuo. Nessuna conoscenza astratta avrebbe potuto sostituirsi alle concrete esperienze sul “campo”. L’apprendimento del perpetuarsi del ciclo naturale delle piante, della nascita, della vita e del loro esaurirsi, non solo aggiungeva nuove e importanti nozioni al nostro bagaglio culturale, rappresentava, altresì, una preziosa occasione per imparare ad amare e rispettare i beni che la natura offriva.
Con quanto interesse abbiamo appreso i modi con cui l’uomo interagisce con la terra per farsi donare i suoi tesori! Mio padre, con pazienza e competenza, ci descriveva i segreti più riposti della natura: il meraviglioso e avvincente susseguirsi delle stagioni, la cura che l’uomo deve alle piante, l’alternanza della produzione del grano con i legumi; il periodo di posa e raccolto di ogni varietà di verdura. Insomma tutto quanto i contadini hanno appreso nel volgere dei secoli. Il contatto con gli animali,che dovevamo nutrire e allevare, è servito, inoltre, a fornirci ulteriori e preziosi elementi di conoscenza. Nessun sapere teorico avrebbe potuto mai sostituire l’esperienza che proveniva dal “vivere” diretto con loro.
La nascita, la vita e la morte, come per le piante, erano oggetto di continue scoperte; a cominciare dalla meravigliosa covata di pulcini che sbucava dalle uova dopo ventinove giorni di cova; e finire con le modalità di fecondazione e nascita dei vitelli, dei maiali, delle caprette, insomma degli animali allevati nel nostro podere. Avevamo imparato a conoscere i loro malanni e i modi per curarli. Da qui il sorgere di profondi sentimenti di rispetto e di amore per l’ambiente e per le sue creature. Non potrò mai dimenticare il dolore, fino alle lacrime, che provai quando fummo costretti a vendere un mulo che da decenni “viveva” con noi: il mulo che mi “portava” a cinema. Per il colore fulvo del suo manto, lo chiamavamo Rossino. Era docile, “affettuoso”, non dava mai segni d’irritazione; si poteva cavalcare senza il minimo pericolo che potesse sgropparti di dosso.

L’aver toccato con mano la miseria e le sofferenze immani che uomini e donne sopportavano per strappare alla terra il frugale nutrimento, non poteva che suscitare in me quegli stessi sentimenti di umana comprensione per le condizioni di lavoro cui è stata, ed è tuttora sottoposta, la classe operaia. Il lavoro, dunque, e il rispetto assoluto che nutro per esso, è stato e sarà sempre in cima ai miei pensieri. Non ho mai fatto distinzione tra le diverse forme di lavoro. Per me tutti i lavori hanno piena dignità umana e sociale. Iddio ha creato il lavoro perché l’uomo potesse completare la sua opera di creazione del mondo. Per questo assume per me anche una componente divina.
Le mie esperienze lavorative, oltre a quelle vissute in proprio, qualche volta si sono svolte in modi differenti e in luoghi lontani. Durante i primi anni delle scuole medie, alla chiusura dell’anno scolastico, tornavamo in campagna. La fatica non ci faceva paura ma, per il desiderio di fare altre esperienze, di varcare gli stretti confini del paese, al termine del terzo anno, convinsi i miei genitori a lasciarmi andare a Vercelli. Lì avrei potuto lavorare, per tutta l’estate, con mio cognato ch’era titolare di un’impresa edile. Per ben due mesi fui preso come garzone e cominciai a guadagnare qualche soldo. Avevo già una discreta formazione in matematica e, spesso, mi “sfruttava” come futuro contabile.
Per le vacanze successive, fino al diploma, scelsi un'altra strada. Da Vercelli alle rive del lago Maggiore per cercare lavoro come cameriere. Fui preso come barista in un ristorante di Arona. L’anno dopo, i proprietari mi affidarono un incarico di maggior prestigio: gestire il bar e assegnare le camere di un piccolo albergo, a poca distanza dalla città. Grande fu la gioia quando venne a trovarmi, a sorpresa, mio fratello. Al pomeriggio facemmo un giro per il paese per visitare i luoghi più belli della città. Passammo una giornata fantastica.
Indimenticabili furono anche le esperienze che ebbi modo di fare in quelle estati. Durante la giornata libera, con i camionisti con i quali avevo stretto amicizia, spesso raggiungevo la riva svizzera del lago, da Ascona fino a Locarno. Oltre a conoscere tantissime persone, l’esperienza più autentica si realizzò col lavoro e la possibilità di guadagnare un bel po’ di soldi. Non dimenticherò mai la soddisfazione che provavo quando, di ritorno a casa, consegnavo tutto il “malloppo” a mia madre; quel denaro, così orgogliosamente guadagnato, serviva a coprire interamente il costo dei libri scolastici.
Qualche considerazione finale. Gli anni vissuti in quella remota contrada hanno contribuito non poco alla nostra formazione umana e culturale, ma un rimpianto è rimasto per sempre nel mio animo: aver sacrificato, negli anni più belli dell’adolescenza, il bisogno di rapporti sociali più frequenti con i nostri pari di età. L’unico compagno di gioco, nei pochi momenti di libertà, era mio fratello. Erano giochi per modo di dire: sfidarsi nella corsa, arrampicarsi in cima a un albero, nascondersi e ritrovarsi. Presto subentrava la noia e si tornava al lavoro.
Resta però la consolazione di aver vissuto un periodo della vita in piena serenità, nell’amore e nell’affetto della famiglia, a contatto straordinario con la natura. Mai più ho potuto gustare il meraviglioso spettacolo che, nelle albe estive, offriva lo spuntare del sole. Un tenue apparire all’orizzonte; poi mano mano il cerchio di fuoco si ingrandiva per infondere calore a tutte le creature. Rimaneva la speranza che il tempo avvenire avrebbe esaudito tutte le nostre aspettative. Si saranno mai avverate?   Domenico Lascaro - Miglionico 28.03.2015
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