MIGLIONICO.
Il quesito che questa volta mi pone il prof. Amati è
davvero un rompicapo tra i più difficili. Per fare
un’analisi completa non basterebbe un trattato
giuridico-pedagogico, a cura di veri esperti del
settore. Poiché sono stato sollecitato, non mi sottraggo
dall’esprimere la mia opinione. Cercherò di essere
stringato, nonostante la vastità degli argomenti in
discussione.
Prima considerazione: la scuola, per essere una “buona
scuola” non deve tendere né a destra, né a sinistra. Se
il fine supremo dell’educazione è il raggiungimento
della LIBERTA’ nell’educando, cioè la formazione di una
personalità autenticamente libera, la scuola non può
essere asservita ad alcuna ideologia.
Da quest’affermazione discende una serie di questioni
che da decenni i governi, di destra e di sinistra, hanno
tentato invano di risolvere. Ne cito alcune: la libertà
d’insegnamento, il rapporto tra pubblico e privato, il
reclutamento dei docenti, il ruolo del dirigente
scolastico, la gestione democratica, la valutazione e la
carriera degli insegnanti, la formazione di base e
quella in itinere.
Sulla prima questione, tutti si dicono assertori della
libertà d’insegnamento. La stessa Carta costituzionale
ne sancisce il principio: l’arte e la scienza sono
libere e l’ibero ne è l’insegnamento. Nella pratica però
sorgono non pochi problemi. E’ libero il singolo docente
di adottare un suo personale metodo pedagogico? E’
libera la singola istituzione scolastica di fare
altrettanto? Premesso che compete allo Stato definire le
finalità e le metodologie generali dell’educazione, alle
singole scuole è consentito scegliere le modalità
didattiche e i contenuti educativi più rispondenti alle
proprie caratteristiche.
Sono principi definiti con grande puntualità e coerenza
nelle ultime Indicazioni Nazionali, cui tutte le scuole
sono tenute a uniformarsi. Riguardo al singolo docente,
è vero che gli è riconosciuta la facoltà di scegliersi
il suo metodo, ma si tratta solo di strategie didattiche
riferite a singole unità d’insegnamento. La didattica
generale e i contenuti educativi sono definiti, in forma
collegiale, nel Piano dell’Offerta Formativa, che ogni
docente è tenuto a rispettare.
Il rapporto tra scuola pubblica e scuola privata è un
annoso problema che ritorna sempre in auge ogni volta
che ci si appresta a porre mano ad una riforma. La
Costituzione è molto chiara: è permessa l’istituzione di
scuole private, ma senza oneri per lo Stato. A questo
punto è lecito chiedersi: se, in un determinato
territorio, lo Stato non è in grado di istituire una
qualsiasi scuola pubblica, se lo fa un privato, è giusto
negargli un aiuto economico? Se i privati fossero in
grado di realizzare una scuola di eccellenza che lo
Stato non è in condizioni di farlo, perché negargli un
qualche finanziamento, se dimostrano di rispettare i
principi costituzionali?
In sintesi, è bere chiarire che lo Stato ha per primo il
dovere di garantire un’istruzione di eccellenza per
tutti, in ogni territorio della nazione. Se per
qualsiasi motivo non può farlo, si dia pure spazio ai
privati, purché siano rispettate le condizioni
richieste. E’ una questione di buon senso e di
equilibrio sociale; se al contrario prevalgono i
contrasti ideologici, il problema non sarà mai risolto.
Sul tema del reclutamento dei docenti, sono intervenuto
più volte. Mi limito solo a ribadire la mia opinione. La
professione insegnante, per la sua particolare natura,
richiede una formazione “sui generis”; non può essere
consentita, indiscriminatamente, a tutti quelli che ne
hanno la voglia o l’interesse. Andrebbe fatta una
selezione all’inizio degli studi universitari,
similmente a quanto si vuol fare per l’accesso alla
facoltà di medicina. Per due motivi: poter scegliere i
più preparati e i più motivati; far corrispondere il
numero dei docenti formati al fabbisogno del personale
insegnante, allo scopo di eliminare, in un prossimo
futuro, la famigerata roulette dei concorsi.
Chi è stato più volte membro delle commissioni
giudicatrici, si è reso facilmente conto dell’imperfetto
meccanismo dei concorsi, che non permette sempre di
scegliere i più preparati, ma favorisce soprattutto i
più furbi nei modi che tutti conoscono. Immaginiamo un
laureato in Lettere o in filosofia, che, per le ragioni
più varie non supera i primi concorsi, con quale animo
affronterà il resto della vita? Un ingegnere, un
economista o altri tipi di tecnici possono dedicarsi
alla libera professione, al professore che cosa gli
resta da fare?
Sul ruolo del dirigente scolastico, tra governo e
sindacati è in atto un contenzioso davvero
inconcepibile. Il governo intende rendere la figura del
preside più autorevole e più responsabile del proprio
lavoro. I sindacati e la sinistra radicale temono che il
capo d’istituto diventi un despota cui tutto è permesso.
Le preoccupazioni sono esagerate, ma qualche ragione
pure l’hanno: l’ipotesi di dare al dirigente la
possibilità di formare l’organico d’istituto, scegliendo
tra i docenti di ruolo da un albo sub-provinciale,
lasciando alla deriva i docenti non scelti da nessuno, è
quanto di più “strampalato” il ministro Giannini abbia
potuto escogitare.
I non convocati andrebbero inseriti nell’Ufficio
regionale; se non chiamati, nemmeno per le supplenze,
potranno essere licenziati. Se davvero sarà così, vorrà
dire che la mente di chi l’ha pensata è davvero
offuscata. E’ vero che i presidi autoritari sono i più
rispettati da docenti e genitori, ma la buona riuscita
dell’insegnamento è soprattutto merito dei docenti. Non
è la paura del preside che fa un buon docente, ma la
coscienza di ognuno nel fare bene il proprio lavoro. I
sindacati stiano sereni, nessuno dei capi d’istituto
pensa oggi di vestirsi dell’autorità dello “sceriffo”.
Essi sanno perfettamente che tale atteggiamento può
nuocere a se stessi e al buon andamento della scuola.
Sull’autonomia e la gestione democratica della scuola,
molto è stato realizzato in questi ultimi anni. Si
tratta solo di sistemare alcuni aspetti particolari che
completino il quadro di una gestione efficace e
democratica. Le attribuzioni del collegio dei docenti
sono ben definite e funzionali; accettabile l’idea di
affiancare al dirigente uno staff di docenti che lo
sostengano nella pratica scolastica giornaliera, ferme
restanti le decisioni assunte in sede di collegio dei
docenti. I consigli d’istituto andrebbero solo ridotti
di numero. E’ stato appena approvato dalla Camera l’art.
1 della riforma: il monte ore delle discipline sarà
rimodulato secondo le esigenze delle singole scuole. Un
buon passo avanti.
Il nodo più complicato da sciogliere è quello della
valutazione . L’ordinaria valutazione dei singoli alunni
è questione puramente educativa ed è praticata con molta
competenza da tutti i docenti. La valutazione degli
stessi è il vero pomo della discordia. Occorre
distinguere tra valutazione iniziale, valevole per
superare il periodo di prova, e quella in itinere per
l’avanzamento di carriera.
La proposta di Renzi di cambiare l’attuale sistema di
valutazione iniziale , aggiungendo al personale
educativo, anche una componente dei genitori o una
rappresentanza di alunni delle superiori, non mi trova
per niente d’accordo. Se proprio si vuole cambiare,
farei una proposta a“scandalosa”: tornare indietro, e
affidare alla vecchia figura dell’ispettore il compito
di promuovere il docente nel “ruolo ordinario”. Un
tecnico esterno all’istituzione avrebbe più
autorevolezza e libertà di giudizio rispetto ai soggetti
interni.
L’altro aspetto del problema riguarda la valutazione
periodica dei docenti. Da più parti si auspica che il
servizio sia valutato,anche allo scopo di premiare i più
meritevoli. La proposta del governo è di istituire al
riguardo un’apposita commissione. In passato vigeva
l’uso della qualifica da parte del dirigente scolastico.
In pratica serviva a poco: non premiava, né puniva
alcuno.
Premiare i meritevoli. Giustissima esigenza, ma non
proprio accettabili le modalità. Sia i docenti, sia i
sindacati vedono nell’intento dell’amministrazione di
instaurare un clima di vessazione a danno dei docenti.
Non è proprio così. E’ lecito però lo scopo di
migliorare l’efficacia scolastica. Secondo me
l’obiettivo può essere raggiunto in due modi, non
alternativi fra loro. Ripristinare la vecchia prassi dei
concorsi per merito distinto, senza i limiti imposti
dalla riforma Berlinguer. Se svolti con serietà e
rigore, servirebbero a sollecitare i docenti ad
aggiornarsi e conseguire un minimo di avanzamento di
carriera.
La seconda modalità si svolgerebbe nel modo seguente: un
singolo, o un gruppo di insegnanti, che volesse
sperimentare, liberamente, un modello didattico
innovativo, sottoposto in anticipo al vaglio di una
commissione tecnica, e dalla stessa, se valutato
positivamente, potrebbe acquisire il titolo di
innovatore ed essere di conseguenza incentivato. Nessuno
sarebbe penalizzato, anzi i più sarebbero spronati ad
emularsi. I meno motivati, usufruirebbero dei normali
scatti di anzianità. Eccezionalmente, i casi di palese
demerito sarebbero licenziati secondo le norme vigenti.
Rimane il problema delle prove di valutazione INVALSI.
Non vedo il perché del rifiuto degli studenti. Esse
servono a verificare il grado di produttività, della
scuola come verifica della validità dell’offerta
formativa. Sarebbe anche un utile strumento per compiere
una vera autovalutazione d’istituto per conseguire
titoli di prestigio e riconoscimenti economici.
Non mi resta che commentare l’ultima esternazione del
“maestro Renzi” il quale, alla lavagna, ha illustrato la
“sua “ riforma. Ha toccato cinque punti che, secondo
lui, caratterizzano il nucleo essenziale della riforma:
autonomia, soldi ai docenti – brutta espressione –
alternanza scuola-lavoro, potenziamento delle discipline
umanistiche, continuità. In generale si può essere
d’accordo; nel merito, molte cose vanno chiarite.
Sull’autonomia didattica e amministrativa ho già
espresso il mio parere: va solo meglio formalizzata.
Sulla necessità di potenziare la formazione umanistica,
non ci sono obiezioni da fare. Più soldi ai docenti, era
ora, ma solo come riconoscimento di un lavoro difficile,
usurante e socialmente importante.
Sull’alternanza scuola-lavoro, occorre soffermarsi un
attimo. La riforma prevede uno stage, in strutture
pubbliche o private, di 400 ore per gli alunni degli
istituti tecnici e 200 per i licei. Nulla da eccepire
per i primi, molti dubbi mi sorgono per i secondi. A che
serve sottrarre 200 ore di studio alle scuole
umanistiche, negli ultimi anni della formazione? Se
l’esigenza è far apprezzare a tutti il significato
profondo del lavoro, il problema va affrontato in
maniera più radicale e contestuale alla prima formazione
dell’educando. Per le caratteristiche proprie dei
bambini e degli adolescenti, il cui apprendimento
avviene con l’esperienza del fare, la pratica del lavoro
creativo dev’essere consentita sin dalle prime classi
della scuola primaria e continuata fino alle soglie
dell’età giovanile.
Ciò significa che in tutto l’arco della scuola
dell’obbligo, devono essere ripristinati i mitici
laboratori di falegnameria, di meccanica e di scienze
che, con l’abolizione dei tempi prolungati, hanno
perduto la loro preziosa funzione. Lavoro e cultura
umanistica, perseguiti con la stessa intensità, davvero
servirebbero a formare quelle “personalità integrali”
che la pedagogia indica come priorità .
Egli ha parlato inoltre di continuità, ma ha mancato di
dirla tutta. Per garantire una vera continuità non basta
organizzare l’organico funzionale; occorre rivedere
l’intera formazione dei docenti e l’intero impianto
strutturale su cui si basa la scuola italiana. Di questo
non c’è traccia nel disegno riformatore del governo.
Promette l’assunzione di circa cento mila insegnanti;
sono tutti quelli che già operano in modo precario nella
scuola; molti altri potrebbero essere sistemati se si
ridimensionasse il numero degli alunni per classe e si
potenziasse il tempo scuola. Uno spiraglio in tal senso
è affiorato con l’approvazione del citato art. 1. Se son
rose…
Renzi ha anche accennato al fatto che si dovrà rivedere
la funzione della “prima scuola”, da zero a sei anni.
Tenga conto che tale segmento scolastico è il più
delicato e il più importante per la formazione futura.
Se si considera che la mente dell’uomo si strutturi,
quasi completamente, tra i cinque e i sei anni, il
compito è tra i più ardui e impegnativo. Oltre a formare
docenti all’altezza del compito, specialisti di
discipline psico-pedagogiche di alto livello , si dovrà
predisporre di ambienti idonei e attrezzature innovative
per stimolare al massimo l’apprendimento dei piccoli
scolari.
Si dovrà inoltre predisporre un piano di aggiornamento
straordinario per i nuovi assunti e per chi è già in
servizio. Ha questo in mente Renzi, quando parla di
potenziare la scuola dell’infanzia? Sarà capace di
recuperare le risorse necessarie? Come si può notare, i
problemi della sciola italiana sono ancora tutti da
risolvere. Renzi sta tentando di intraprendere un
cammino riformatore. Non mi sembra però che la direzione
intrapresa sia quella giusta. Manca un disegno
complessivo, nel quale inserire gradualmente tutti gli
anelli mancanti. Se davvero la centralità della scuola è
il primo pensiero del governo, occorre assumere un
atteggiamento di ascolto nei confronti di tutte le
componenti sociali e politiche, per portare a
compimento, nei tempi necessari, la vera grande riforma
che la scuola attende da sempre.
Caro Giacomo, come vedila scuola non ha padroni. I
provvedimenti da me auspicati sono sia di destra, sia di
sinistra. E’ meglio dire, non appartengono né all’una,
né all’altra. L’istruzione dev’essere libera, come
sancita dalla nostra Costituzione. Ringrazio chi ha
avuto la pazienza di arrivare fino in fondo, e mi scuso
per essere stato un po’ prolisso. Domenico Lascaro
(d.lascaro@libero.it) |