MIGLIONICO
Pd: in hoc signo perdes

MIGLIONICO. Sono ricorso al titolo in latino (“maccheronico”) per addolcire l’impatto su ciò che sto per scrivere. Confesso che me lo aspettavo: l’amico Amati, ancora, una volta mi sottopone stuzzicanti quesiti sulla situazione attuale del Partito Democratico. “Chi vincerà la sfida per conquistare la guida del Pd? E’ compatibile il ruolo di segretario con l’eventuale carica di Presidente del Consiglio? Nel partito ci sono opinioni differenti, chi ha ragione? Al M5S i sondaggi assegnano il 32%; che cosa può comportare questo dato? Se nessuno supera il 40%, esiste un rischio d’ingovernabilità”?

Domande semplici, che richiedono però risposte complesse. Prima di procedere, consentimi, caro Giacomo, di fare qualche premessa. Data la situazione d’iscritto al Pd, il mio giudizio non potrà essere del tutto oggettivo, ma risentirà dell’umore e dei miei sentimenti personali. La prima domanda, soprattutto, richiede considerazioni più o meno argomentate. Il primo dato che balza agli occhi dell’osservatore è la disastrosa frammentazione nella quale si ritrova il Pd a causa della scissione appena consumata. Il sentimento che mi ha invaso l’animo è una cocente ammarezza, alimentata dall’infrangersi di un sogno: quello di un Partito Democratico vincente. Purtroppo, tutto sembra svanire come nebbia al sole.

Come ti è noto, per alcuni anni non ho preso più la tessera del PCI perché mi trovai in disaccordo con la sua politica troppo asservita all’Unione Sovietica. Apprezzai comunque la svolta della Bolognina di Occhetto che ebbe l’ardire di cambiare nome e simbolo del partito. Non ebbe, però, altrettanto coraggio di fare una doverosa autocritica degli errori storici del Comunismo. Lasciò tutto lo spazio a Berlusconi che fece stampare il “libro rosso” del Socialismo sovietico, mossa astuta che gli facilitò la discesa in campo. Ma questa è storia risaputa.

Seguirono, di conseguenza, la nascita di Rifondazione Comunista e la frantumazione di tutta la Sinistra. In mancanza di una legge elettorale, che stimolasse le forze politiche ad aggregarsi fra loro, tale frammentarietà le causò continui insuccessi, fino a lambire lo stesso partito ri-fondato da Valter Veltroni. Le rivalità interne ed esterne, le correnti carsiche sotterranee e il velleitarismo dei “fratelli riformatori” furono, inoltre, le cause principali che portarono, prima alla caduta del governo Prodi e, in seguito, all’insperato successo della destra berlusconiana. Sopravvennero poi le dimissioni di Veltroni e un periodo transitorio di reggenze tra Epifani, Franceschini, Bersani, prima dell’approdo di Matteo Renzi.

Non ebbi alcuna remora, pertanto, per aderire al Pd di Veltroni, quando dal Lingotto proclamò la nascita di un “partito nuovo”, con l’obiettivo di mettere insieme le risorse della migliore tradizione del PCI e quelle della parte più avveduta e onesta dell’area più innovativa della DC. Lo scopo principale era quello di creare un partito democratico e progressista, innovativo, non ideologico e capace di affrontare le sfide immani del nuovo millennio. Grande fu l’entusiasmo di quanti, milioni di uomini e donne, me compreso, che credettero di vedere spianarsi la strada per una vera palingenesi nazionale e mondiale.

Ahimè! Quel sogno è andato via via spegnendosi determinando il vanificarsi di quel patrimonio ideale e politico che aveva caratterizzato un periodo di lente, ma sicure conquiste. Non fu certo un momento felice per il Pd. Bersani aveva ereditato un partito percorso da rivalità e risentimenti personali che impedivano di guardare a quello che succedeva fuori dal proprio mondo. Era l’epoca dei cosiddetti “indignati”: una protesta giovanile che, partita dalla Spagna di Zapatero, si estese a tutta l’Europa fino a lambire le sponde orientali dell’Atlantico. Il Pd, ripiegato su se stesso, non seppe rispondere ai bisogni provenienti dalla società esterna, né valutare i pericoli derivanti dai nascenti populismi.

Per di più, svanirono inspiegabilmente i tentativi di approvare una nuova legge elettorale che assicurasse un minimo di bipolarismo e di funzionale governabilità. Non poche responsabilità sono da attribuire al “compagno Bersani”, lo “smacchiatore di giaguari” che, per chissà quale oscuri motivi, rifiutò l’accordo con Berlusconi, solo perché non condivideva il sistema delle preferenze per scegliere i parlamentari. Ironia della sorte; ha rotto con Renzi per motivi opposti. Misteri della politica!

Le conseguenze sono note a tutti: l’insuccesso elettorale del 2013, l’ingovernabilità e l’affermazione del M5S. Questa era la situazione che portò, nel bene e nel male, alla conquista del partito prima e, successivamente alla guida del Governo, da parte di Matteo Renzi. La sconfitta del referendum del 4 dicembre, la caduta del Governo e la conseguente, disastrosa scissione del Pd hanno aperto un ulteriore periodo d’incertezze che, spero, possano essere superate nella battaglia congressuale appena iniziata. E’ facilmente comprensibile lo stato di smarrimento e di profonda amarezza in cui si può trovare un iscritto come me, nel costatare le manchevolezze e le responsabilità, collettive e individuali, che hanno generato lo sfacelo attuale. Hanno infranto quel sogno di riscatto, morale e civile, promesso da un partito vocato al bene comune.

Chi vincerà la sfida per la segreteria? Mi chiede Amati. Con l’amaro in gola, dico solo che abbiamo già perso tutti. Un partito sorto per migliorare il Paese si è infranto per motivi non propriamente vitali o per contrasti politici insanabili, ma solo per ripicche personali e giochi di potere che hanno gettato nello sconforto milioni di elettori e simpatizzanti. E’ pur vero che Renzi ha commesso un’infinità di errori e peccato di arroganza ed egolatria, ma le colpe degli altri non sono da meno. Tutti insieme hanno portato alla situazione attuale; caratterizzata dal calo dei sondaggi e dal sorpasso dei 5 Stelle.

Tutta colpa di Renzi, dunque? Tre sono, secondo me i motivi principali che hanno causato l’attuale declino: l’incomprensibile scissione che, per se stessa, ha generato sconcerto e sfiducia nell’elettorato; lo spirito di vendetta che aleggia fra i candidati alla segreteria; il peso non marginale assunto dalla vicenda Consip, che vede fra gli indagati anche il padre di Matteo Renzi. Fino a quando la vicenda non sarà del tutto chiarita, condizionerà non poco le scelte degli elettori. Difficile a questo punto fare previsioni su chi sarà il vincitore. A parte le buone intenzioni che caratterizzano ciascuno dei contendenti, non si dispone ancora delle piattaforme programmatiche su cui poter dare giudizi definitivi.

Oltre alle affermazioni di principio che ciascuno va proclamando, vedrei di buon grado al primo posto i seguenti provvedimenti: una riforma del partito partendo dalle strutture di base per avviare una gestione autenticamente democratica al suo interno; realizzare in altri termini quel cambio di passo auspicato dal compianto Alfredo Reichlin; battersi con coraggio e senza tentennamenti per una nuova unità europea, anche a costo di rinunciare a parte della sovranità nazionale. Mettere in campo, inoltre, una seria riforma della scuola, che non si accontenti di qualche maquillage di superficie o di alcune migliaia di posti in più, ma riveda dalle fondamenta l’impianto pedagogico e didattico, e dia più dignità alla funzione docente. Non importa chi vincerà la sfida congressuale, l’importante è che vinca il partito.

Che fare, allora? Farsi prendere dallo sconforto e rassegnarsi a ulteriori sconfitte, o reagire con più forza e determinazione? Chi ha a cuore le sorti di un partito, il solo capace di affrontare le sfide del futuro, non può che impegnarsi con rinnovato ardore e coraggio e ribellarsi alla sterile rassegnazione. Rimettersi in cammino per vincere la battaglia più difficile: debellare l’ingiustizia e le disuguaglianze sociali, dare dignità morale e sociale a ogni essere umano; lavoro per tutti, riconoscere i fondamentali diritti individuali e collettivi. E’ il momento di assumersi ciascuno le proprie responsabilità e partecipare in massa a rilanciare il partito del popolo democratico.

A questo punto, non mi resta che rispondere agli altri quesiti che mi ha posto Amati. “Ha ragione chi auspica una netta separazione tra la funzione di segretario e quella di guida del governo”? Secondo me è auspicabile una terza soluzione: il segretario, una volta eletto premier, dovrebbe nominare un suo sostituto che possa gestire, in suo nome, l’organizzazione interna del partito, riservandosi esso stesso le scelte di fondo; fermi restando che il partito si sia dato, preventivamente, un’autentica organizzazione democratica al suo interno. Che cosa dire delle accuse di Grillo, spavaldamente confortato dagli ultimi sondaggi, nei confronti della dirigenza del Pd? Non hanno alcun peso politico. Rivelano soltanto la mancanza di un progetto, politico e sociale, della vita e del mondo; oltre alla volontà di distrarre lo sguardo dell’opinione pubblica dai conflitti interni e dagli strafalcioni quotidiani del Movimento.

Concludo accennando al problema della governabilità. Se non si riuscirà a fare una legge elettorale, cosa che temo fortemente, che assicuri rappresentatività e stabilità di governo, esiste davvero il rischio di una “ingovernabilità permanente” (a dirla con Battiato), se nessuno, visto il parere della Consulta, riuscirà a raggiungere il 40% dei voti. Chiudo con una nota di presunzione personale. Qualche anno fa, ho elaborato un esempio di legge elettorale capace di assicurare governabilità e rappresentatività, definendola “doppio turno all’italiana”. Chi volesse può trovarlo su un mio precedente scritto, gentilmente raccolto su “l’angolo della politica “ dal prof. Labriola, risalente al 27.06.2011. Chiedo scusa per la lunghezza e ringrazio i coraggiosi, eventuali lettori.
Miglionico 28.03.2017
Domenico Lascaro (d.lascaro@libero.it)

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