MIGLIONICO.
Ancora una sventagliata di quesiti che mi sottopone l’amico Giacomo
Amati sugli esiti dell’ultimo referendum. In particolare mi chiede
un parere sulle asserzioni degli esponenti del M5S, secondo i quali
la vera vincitrice della battaglia referendaria è statala
democrazia. E ancora:“Che cosa serve ora all’Italia e… ci sarà una
scissione in seno al PD”? La bomba finale riguarda le cause che
hanno generato la crisi drammatica delle sinistre nel mondo,
dall’Europa all’America.
Senza dubbio, l’altissima
percentuale di votanti che ha letteralmente invaso i seggi
elettorali, è da attribuire a un sussulto di spirito democratico che
non si registrava da tempo nel nostro paese. Non solo i 5 Stelle, ma
tutti i partiti, in special modo i sostenitori del NO, hanno
applaudito alla vittoria della democrazia, come se il “figliol
prodigo” fosse tornato finalmente al padre. Il fatto stesso, però,
che il fenomeno ha suscitato tanta meraviglia deve farci un po’
riflettere. Non è che tale assenza era dovuta ad un deficit
democratico, comune a tutte le forze politiche? Voglio proprio
sperare che questa lezione sia un monito per tutti a darsi regole
interne di democrazia.
A questo punto il vero nodo
da sciogliere è rimettere in moto l’azienda Italia e ricostruire un
tessuto sociale e politico capace di dare ai giovani, e non solo a
loro, una prospettiva certa per il futuro. E’ chiaro che tale
obiettivo presuppone un governo legittimamente eletto con un sistema
elettorale che assicuri governabilità e stabilità. Con la situazione
creatasi con la bocciatura del referendum, chi sarà in grado di
raggiungere tale obiettivo? A giudicare dalle pretese e dagli
interessi di tutti i partiti (vincitori o sconfitti), la matassa non
è facile da sbrogliare. Alcuni premono per andare subito al voto,
cavalcare il successo elettorale e incassare consensi insperati.
Altri per conservare posizioni di potere o per assicurarsi un ruolo
determinante nella composizione dei governi futuri. Il PD dovrà
scegliere da che parte stare,trovare il modo per riacquistare
credibilità e la fiducia degli elettori; tentare inoltre di ricucire
le lacerazioni interne.
Mentre scrivo la situazione
è in pieno stallo. Il Capo dello Stato ha appena iniziato le
consultazioni e nulla trapela che possa far scorgere le sue
intenzioni. Restano in piedi alcune opzioni che lasciano aperte
qualsiasi soluzione. Si ipotizza un reincarico a Renzi, un mandato
istituzionale a Grasso, un incarico da affidare a Padoan o a
Gentiloni. L’obiettivo è fare una nuova legge elettorale, con
l’apporto di tutti, e andare subito al voto. Nessuno però vorrebbe
caricarsi di responsabilità. Si vuol caricare la “croce” sulle
spalle del PD, essendo il partito di maggioranza relativa e perché
bocciato al referendum. Quale dunque la mia opinione?
Mattarella si astenga
dall’affidare il reincarico a Renzi perché susciterebbe un tiro al
bersaglio - pericoloso per l’ordine democratico - da parte di chi
ha la fregola di ritornare subito al voto. Occorre una discontinuità
di governo che plachi, per qualche tempo, gli animi esagitati e
assicuri un regolare disbrigo delle cose da fare, anche in vista
degli impegni internazionali assunti in precedenza. Per tali motivi
è da escludere Grasso e dare mandato a Padoan, piuttosto che a
Gentiloni, perché persona seria, competente e ben considerato dai
vertici europei. Alla base di tutto v’è un motivo che definirei di
“buon senso politico”. Chiarisco. Escludendo le forze che premono
per il voto subito, allo scopo di “battere il ferro quando è caldo”
e cogliere un facile successo elettorale, il pensiero va alle altre
forze politiche – penso all’universo dei moderati di centrodestra e
a quello delle sinistre democratiche, compreso il PD– alle quali non
converrebbe precipitare gli eventi, in assenza di un progetto
politico chiaro e condiviso che affronti i problemi più urgenti del
paese.
Soprattutto non conviene
all’Italia cui necessita una stabilità di governo, capace di farla
uscire dalla crisi economica e sociale, anche in vista delle sfide
epocali che ha di fronte: l’ondata migratoria, la carenza di lavoro
per i giovani, le emergenze ambientali, per citarne solo alcune. E’
chiaro che tutto ciò richiede un bel po’ di tempo, necessario per
avviare almeno in parte il percorso descritto. Anche senza
rispettare la naturale scadenza della legislatura, il voto può
attendere almeno sei-otto mesi.
Concludo la prima parte di
questo intervento, accennando alla situazione in cui si ritrova il
dimissionario Premier e il Partito Democratico di cui tuttora è
segretario. Escluso che possa accettare un ipotetico reincarico (non
auspicabile) da parte di Mattarella, non gli resta che dedicarsi al
partito, non solo per sua convenienza, ma soprattutto per dovere di
responsabilità nei confronti degli elettori e degli iscritti che non
gli hanno fatto mancare i consensi, nonostante l’insuccesso
elettorale. Conviene che resti in carica da segretario o cercare
altre soluzioni per rilanciare le “politiche bersaniane” e tentare
di ricucire le ferite interne al partito? Mi “consenta” un
modestissimo consiglio. Si dimetta anche da segretario e affidi la
gestione a un soggetto super partes in grado di guidare il popolo
democratico per il tempo necessario a svolgere il futuro congresso.
L’ideale sarebbe affidare l’incarico a Walter Veltroni, primo
fondatore del PD, anche se recalcitrante.
Renzi, alla pari degli
altri, concorrerebbe a rifondare ab ibis il partito per dargli una
nuova organizzazione interna; soprattutto mettere in campo un
progetto politico unitario, riscoprendo le ragioni di un socialismo
dal “volto umano”, depurato dalle “incrostazioni ideologiche” del
secolo scorso. (v. il mio precedente intervento: Utopie
alternative). Una volta definite le politiche e i programmi, si
potrà solo allora celebrare il congresso e scegliere la persona
adatta a reggerne le sorti. Renzi non avrebbe difficoltà a far
valere le sue capacità e il suo bagaglio di risorse, sia come
segretario, sia come futuro candidato a riprendere il ruolo di
Premier. Non ci sarebbe né bisogno di innescare “rese dei conti”, né
di minacciare scissioni o “licenziamenti in massa”.
Riguardo all’ultimo quesito
il discorso è molto più complesso e pernicioso. Su di esso si sono
espressi e continuano tuttora a cimentarsi i più autorevoli analisti
internazionali. La maggior parte è concorde nell’affermare che le
cause principali, generatrici della crisi delle sinistre nel mondo,
sono da ascrivere all’incapacità delle stesse di non aver saputo
capire quali fossero i bisogni vitali delle classi più penalizzate
dalla crisi economica e il disagio del cosiddetto ceto medio,
impoverito dal fallimento della globalizzazione. Ad esse vanno
aggiunti la paura dell’immigrazione incontrollata, il terrorismo
Jihadista e la robotizzazione della produzione industriale, la quale
arricchisce i pochi e riduce molti alla povertà.
Tutto vero, ma le cause
della crisi sono molto più complesse e, pur differenziandosi da un
paese all’altro, generano effetti comuni. Per prima cosa il
proliferare di populismi reazionari che danno la stura a movimenti
antidemocratici e antisistema che minacciano la convivenza
democratica. Il primo a beneficiare della crisi della sinistra
americana è stato il neo eletto Presidente USA, di cui non è ancora
chiaro il programma politico, tanto è incerto e contraddittorio il
suo modo di fare. Per non parlare dei fantasmi che si aggirano per
l’Europa: Marine Le Pen in Francia, Nigel Farage in Inghilterra,
FraukePetryin Germania, e dei “Trumpolieri” di casa nostra.
Oltre ai motivi cui ho
accennato, ciò che ha determinato la crisi dei tradizionali partiti
democratici è stato il travolgente succedersi dei cambiamenti nella
società odierna e l’incapacità degli stessi di leggerne gli effetti.
Si aggiungano le lotte di potere interne che gli hanno distolto lo
sguardo dalla realtà e dall’azione dirompente dei cosiddetti
“indignati”,movimenti attivi già da alcuni anni in Spagna e in
America, passando per l’Italia. Proprio in Europa la crisi ha
assunto una configurazione del tutto originale.
Oltre ai motivi comuni di
cui si è detto, nel vecchio continente hanno giocato un ruolo
decisivo la crisi dell’Euro e l’incapacità di costruire un’Europa
unita, al servizio dei cittadini, non solo dell’alta finanza e dei
tecnocrati. La percezione di tale fallimento ha generato un moto di
protesta generalizzato verso l’establishment e i cosiddetti poteri
forti, dando vigore ai movimenti antisistema. Se a ciò si aggiunge
la paura del fenomeno immigratorio e la conseguente minaccia di
vedersi sottrarre risorse e posti di lavoro, il quadro è completo.
Non a caso tale situazione ha contribuito non poco alla sconfitta
del Sì in Italia, oltre agli errori madornali di Renzi e alla
propaganda truffaldina dei suoi detrattori.
Miglionico 9.11.2016
Domenico
Lascaro
(d.lascaro@libero.it)
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