Ringrazio
vivamente l’autrice del concorso che mi ha stimolato a
scrivere questo“racconto”; non ho mai osato esporre
pubblicamente i miei sentimenti, perciò le sono infinaltri_1261.htmitamente
grato. E’ un’iniziativa di alto valore letterario,
sociale e morale, che fa onore a colei che l’ha ideata e
a quanti hanno contribuito a fornire l’imprimatur
istituzionale.
Partecipo volentieri per offrire una testimonianza
diretta, come ex alunno e come insegnante nelle scuole
di campagna. A una condizione: che il lavoro non sia
considerato concorrente al premio finale, ma solo come
un modesto contributo alla riuscita dell’iniziativa.
Poiché uno degli obiettivi del concorso è la “conoscenza
e lo studio della storia e della civiltà contadina di
Basilicata”, penso che sarò in tema se proverò ad
associare altre esperienze riguardanti, in generale, la
vita agreste che ho vissuto negli anni della scuola
rurale.
La frequenza della prima classe inizia nel lontano 1949
nelle scuole elementari di Miglionico. E’ una classe
composta di oltre trentacinque alunni. L’insegnante, una
giovanissima Ida Bruni, ci porta quasi tutti in terza
elementare; la passione e l’impegno profusi le vengono
riconosciuti da tutti, alunni e genitori. Le scuole sono
situate nel vecchio convento dei frati cappuccini; uno
stabile mal conservato, ma ancora idoneo a contenere
oltre cinquecento alunni. Non ha di servizi igienici
regolamentari -gli scarichi sono direttamente collegati
ai condotti che vanno a finire nei dirupi sottostanti -
né sistemi di riscaldamento e di illuminazione adeguati.
Nei mesi invernali, prima del suono della campanella,
una delle due bidelle in servizio, Giuseppina,
Peppinella, si premurava di
accendere la carbonella in grandi bracieri, soffiando
con un ventaglio di rame. Ahimè, il calore prodotto
serviva solo a riscaldare gli insegnanti e, a turno,
qualche bambino infreddolito.
Il primo giorno di scuola, dopo l’appello, la maestra ci
condusse, salendo per una larga scala, in un’aula del
piano di sopra. Era uno stanzone lungo e stretto,
illuminato da due finestroni che si aprivano all’interno
del chiostro. Siccome ero tra i meno alti, - c’erano già
alcuni ripetenti –per esplicita richiesta di mia madre,
occupai il primo banco insieme con mio fratello gemello.
All’epoca i gemelli non andavano separati, né si
vestivano in modo diverso.
I più alti furono sistemati negli ultimi banchi,
composti di strutture di legno compatto. Comprendevano
la seduta e lo scrittoio, ribaltabili per agevolare
l’ingresso dei bambini. Nella parte fissa erano ricavati
due fori, uno per ogni posto-alunno; servivano a
collocarvi i calamai per l’inchiostro. I banchi più
bassi erano posti avanti, in fondo quelli più alti, per
consentire a tutti la visuale della lavagna e di essere
facilmente seguiti dall’insegnante. Ciascuno era
corredato di un ripiano sottostante e di un poggiapiedi.
Fin dal primo giorno s’inizia con la matita a riempire
pagine e pagine di aste, cerchi e bastoncini. Dopo
qualche tempo si passa alla scrittura delle letterine. E
via con altre decine di pagine. Passano alcuni mesi ed è
la volta delle sillabe. Stesso monotono esercizio che i
bambini eseguono con rassegnata sollecitudine. Si
procede con la lettura delle prime sillabe – ba be bi bo
bu, ma me mi… L’apprendimento dei numeri avviene allo
stesso modo: scrittura di intere pagine e riconoscimento
contemporaneo del valore numerico.
La lettura delle prime frasi, a metà dell’anno
scolastico; alla fine, i più bravi riescono a leggere
interi brani. L’esercizio più comune,a casa, è quello di
leggere, dieci-venti volte, il brano assegnato. Dopo
aver imparato a contare entro il venti, con l’ausilio di
fave e ceci, si cominciava con le prime operazioni
aritmetiche. Seguivano i primi dettati e la
memorizzazione di filastrocche, il disegno spontaneo e
la lettura di qualche favola da parte dell’insegnante.
Solo ad anno scolastico inoltrato si usava la penna con
l’inchiostro.
Qui veniva il bello. Il nero fluido non sempre si usava
per scrivere; spesso finiva per imbrattare le mani e i
visi dei bambini. I quaderni erano tutti uguali: la
copertina di colore nero, su cui si applicava una
targhetta per scrivervi il nome e il contenuto. Mi sono
dilungato sul metodo di apprendimento della lettura e
della scrittura, allo scopo di descrivere qual era
effettivamente la metodologia applicata nel periodo
post-bellico. I metodi attivi, il globalismo,
l’insiemistica e quanto di nuovo è emerso negli anni,
erano ben lontani dall’essere conosciuti.
I due anni successivi si svolsero con estrema regolarità
e la massima efficacia di apprendimento. Non tutti
riuscirono a superare gli esami di seconda classe e
dovettero ripetere l’anno. Nonostante il periodo fosse
caratterizzato da un rigoroso metodo disciplinare, non
ricordo che la maestra abbia mai fatto ricorso alle
punizioni corporali. La bacchetta serviva solo a
indicare figure o scritte sulla lavagna.
Relativamente alla classe terza, conservo, nitido, un
solo ricordo. Erano gli anni della costruzione della
diga di S. Giuliano; da Roma e dal Nord Italia giunsero
diversi tecnici che trovarono alloggio,con le loro
famiglie a Miglionico. La classe si arricchì di un nuovo
alunno di nome Angelo De Silvestri. Il cognome, insolito
dalle nostre parti, la statura più elevata rispetto agli
altri, sempre ben vestito e pettinato, lo resero il
compagno preferito da tutti; risultò subito il più
bravo; sembrava disceso da un altro pianeta.
Quel particolare periodo storico era contraddistinto da
una netta separazione tra Nord e Sud, sia sul piano
economico, sia sotto l’aspetto sociale e culturale. Il
Nord ricco ed emancipato, il Sud arretrato e
sottosviluppato. Erano anni bui sotto ogni punto di
vista. Si scontavano le sofferenze inferte dalla guerra.
La miseria era generalizzata; gran parte della
popolazione viveva in case fatiscenti che, spesso, erano
ubicate sotto il livello stradale. I lavoranti più
fortunati erano a giornata, o ad anno intero,presso i
proprietari terrieri, mal pagati e senza un minimo di
protezione sociale.
Prestavano ininterrottamente il loro servizio per
svolgere i lavori più vari: portare gli animali al
pascolo, mungere quelli da latte, arare i campi e
quant’altro fosse necessario. Il vitto, quanto di più
frugale possibile; il compenso era per lo più
corrisposto in natura: grano, cereali, legumi, una
decina di litri d’olio, una “pezza “ di formaggio,
qualche indumento dismesso dal padrone. Tra gli
artigiani, falegnami e i fabbri erano i più
avvantaggiati. I primi perché, solitamente, erano gli
unici a realizzare i mobili per arredare le case dei
novelli sposi: un letto, un armadio, una cassapanca per
la biancheria, una per le derrate alimentari e quattro
sedie. I secondi per l’alto numero di muli e asini che
avevano bisognodi essere “ferrati”.
I calzolai non se la passavano tanto bene. Era uso
andare a “giornata” nelle case di chi aveva necessità
del loro servizio: riparare,o costruire dal nuovo le
scarpe. Vi rimanevano tutto il tempo necessario,
compreso pranzo e cena. I barbieri, per la maggior parte
del tempo, si dedicavano a strimpellare la chitarra.
Solo il sabato sera e la mattina della domenica
lavoravano sodo, quando i contadini, a fine settimana,
tornavano dai campi. Insomma, tranne i grossi
proprietari terrieri, che da sempre avevano una vita
agiata, anche gli artigiani non facevano salti di gioia.
Lo stesso tessuto urbano era in condizioni di estrema
precarietà; l’igiene e la manutenzione delle strade
erano pressoché inesistenti. Sciami di mosche e
d’insetti invadevano strade e abitazioni. L’arrivo degli
americani, che portarono un nuovo prodotto per
disinfestare l’ambiente, servì ad attenuare il fenomeno.
Ma il D.D.T., era quello il nome dell’insetticida, era
tossico e pericoloso per la salute. Oltre ai vari
insetti che infettavano l’ambiente, altri animali vi
contribuivano massicciamente: muli, asini, cavalli che
spesso facevano i loro bisogni per strada; animali da
cortile – galline, maiali, cani - tenuti nelle stalle
dell’abitato, davano anch’essi un notevole contributo.
Era consuetudine, in quegli anni, che tutta la
popolazione nutrisse un maiale, il porco di Sant’Antuono,
il quale, mozzate le orecchie, girava libero per il
paese in cerca di chi gli desse qualcosa da mangiare.
Naturalmente anch’esso dava una mano, meglio un piede, a
imbrattare l’abitato. Alla pulizia delle strade erano
adibiti pochi “spazzini”, con pochi mezzi e tanto
lavoro. A rendere ancor più precarie le condizioni
igieniche era la quasi totale mancanza di acqua
corrente.
La struttura fognaria era stata attivata solo dagli anni
‘36/37 e i bagni privati erano solo appannaggio di
pochi. S’immagini il disagio immane che la popolazione
era costretta a subire. Ogni mattina, alle prime ore,
girava per le strade il “sc’ttacallar”, l’addetto alla
raccolta della “produzione notturna”; il contenuto si
versava nell’apposita “callara”, sistemata su un
carretto tirato da un asino; veniva svuotato, a cielo
aperto, nei burroni sottostanti. Quale attrazione per
mosche e randagi!
Per le necessità di acqua potabile, la maggior parte
delle famiglie faceva ricorso agli acquedotti pubblici.
L’erogazione, però,spesso avveniva a giorni alterni e
solo per poche ore. Già dalla sera prima, o al mattino
presto, bisognava guadagnarsi la prima posizione. Si
deponevano presso i fontanini, in ordine d’arrivo, i
recipienti più vari: barili, anfore, damigiane e
quant’altro. Quando non si rispettava il diritto di
precedenza, sorgevano infinite discussioni, non sempre
in forme civili: donne che si accapigliavano, prepotenti
che non rispettavano il turno, recipienti che volavano
via. Le famiglie più ricche usavano altri sistemi. Con
poche decine di lire assoldavano il “carresc’a iacqua”
e, a dorso d’asino, si facevano portare l’acqua dalle
fontane d’intorno.
Queste le condizioni nelle quali erano costrette a
vivere le famiglie più povere. Spesso, nei mesi più
caldi, si vedevano andare in giro bambini a piedi nudi
per risparmiare le scarpe per l’inverno. In assenza di
attrattive e di strutture idonee, come passavano il
tempo i ragazzi, una volta fuori dalla scuola? I luoghi
più praticati erano la strada e gli spazi incolti
intorno al paese. Non appena finivano di “divorare” il
solito piatto di minestra – molti dovevano contentarsi
di una fetta di pane e olio, con una spruzzatina di
zucchero - subito in strada in cerca dei compagni;
armati di “ciucc e mannedd” o di “cerchio e mart’llin’”,
gli attrezzi di gioco più comuni, iniziavano il “dopo
scuola” abituale.
Qualche volta accadeva che, con la modica cifra di dieci
lire, si poteva assistere, nel vecchio cinema, alla
proiezione di un cartone animato. I ragazzi più grandi
ricorrevano a qualcosa di più emozionante:in ogni rione
si organizzavano in vere e proprie bande, contro i
quartieri avversari. Spesso si “dichiaravano guerra” e
si disputavano vere e proprie battaglie, armati di
pietre, bastoni e con le usatissime fionde. Che io
ricordi non avveniva mai che ci si facesse davvero del
male. Talvolta la sfida si riduceva a battersi su un
terreno di gioco: per una partita a pallone, una sfida a
“ciucc e mannedd” o una corsa campestre. Niente a che
vedere con le cruenti battaglie disputate dai “ragazzi
della via Pàl”.
Tra i tanti trastulli che occupavano il mio tempo
post-scolastico, uno lo ricordo ancora con nostalgia. Il
merito era tutto di un compagno di pochi anni più
grande. Aveva la precoce vocazione a esercitare l’arte
del comando. Raccoglieva intorno a sé i ragazzi più
piccoli e li addestrava alla marcia, all’esecuzione
degli ordini e al rispetto dei capi. Gli confezionava
divise di carta, berretti colorati, bandierine tricolori
da sventolare e, in fila indiana li faceva marciare per
le strade del paese.
A ogni punto strategico dell’abitato, su un muro o sulle
scale di qualche abitazione, il “capitano” improvvisava
un“comizio” di fuoco. Era il giovanissimo Mariano
Montemurro. Nell’età più matura non si è minimamente
smentito: prima di trasferirsi a Matera per insegnare
Italiano nei Licei, fondò un circolo cultural-ricreativo,
- il glorioso 7M – che, per più di un decennio raccolse
intorno a sé il meglio della gioventù miglionichese. Ci
ha lasciati pochi anni fa.
Chiudo la parentesi e, prima di passare alla quarta
classe, dedico un cenno a tre diversi episodi, gli unici
della scuola “d’asilo”. Ero seduto di spalle a una
dispensa contenente materiale scolastico. Mentre mi
stavo beatamente dondolando, perso l’equilibrio, caddi
rovinosamente all’indietro e infransi il vetro della
credenza, riportando escoriazioni, fortunatamente, di
lieve entità. Secondo episodio. A turno, il comune
forniva un pasto caldo a chi ne avesse bisogno. Un
giorno un piattone di pasta e fagioli mi causò
l’irreparabile.
Al momento dell’uscita, nel tratto dalla scuola a casa,
il pasto consumato con tanta foga si disperse tutto per
la via. Arrivato a casa mia madre mi calò tutto intero
in una tinozza di acqua bollente. L’ultimo riguarda
l’esercizio del “confezionar barchette”, molto in uso,
all’epoca, nella scuola materna. La carta usata era
piuttosto spessa e nelle frequenti “battaglie” che
avvenivano l’uno contro l’altro, fui colpito in un
occhio da una barchetta appuntita, rischiando di
perderlo per sempre. Morale: la cultura della sicurezza
era ancora di là da venire.
A causa della decisione di trasferirci in campagna, la
frequenza in quarta elementare subisce un cambiamento
radicale. Siamo nei primi anni cinquanta. Il lavoro
scarseggia e la miseria è palpabile negli strati più
umili della popolazione; il lavoro lo si cerca ovunque,
anche in regioni lontane. Si assiste, pertanto, a una
ripresa massiccia dell’emigrazione verso le città del
Nord. Anche da Miglionico partono decine di persone. Un
fratello di mio padre, a capo di una famiglia numerosa,
non sfugge all’ingrato destino. Vende quel poco che
possiede e si trasferisce, con moglie e figli, in una
città del Piemonte.
Con loro parte la più piccola delle mie sorelle. I miei
genitori, indebitandosi, acquistano un piccolo uliveto
confinante col nostro. Si forma così una piccola
azienda, capace, in prospettiva, di sostenere la
famiglia. Per estinguere il debito, però, occorrerà
lavorare sodo. Con i contributi dello Stato, riusciamo
in poco tempo a costruire una modesta casa in campagna,
dove si trasferisce tutta la famiglia.
Inizia per me, e per mio fratello, un periodo di grandi
sacrifici e di estreme privazioni. Per frequentare la
quarta, bisognava recarsi ogni giorno in paese e fare, a
piedi, sei chilometri, tre all’andata, tre al ritorno..
La stessa sorte toccò a un bambino delle nostra stessa
età, la cui famiglia viveva poco distante. Di buon
mattino, prima di raggiungere la rotabile sovrastante,
occorreva inerpicarsi per una stradina in salita, lunga
oltre mezzo chilometro. La cartella di tela a tracolla,
il berretto di incerata calcato sulla nuca, gli scarponi
di cuoio bianco di Sorrento – le sorrentine – e via di
corsa verso il paese. Col bel tempo tutto procedeva nel
miglior dei modi. Nei giorni di pioggia e vento, il
disagio era enorme, si arrivava a scuola intirizziti e
bagnati come pulcini. Con un solo ombrello dovevamo
ripararci in due.
L’aula che ci ospitava, si trovava all’esterno del
vecchio convento, adiacente alla chiesa del Crocefisso,
situata a piano terra e senza servizi igienici; per i
bisogni si doveva rientrare nell’edificio; il più delle
volte, senza essere visti, dietro i muri sottostanti.
Era una classe mista di oltre trenta alunni. Il maestro,
un bell’uomo sulla quarantina, con un grazioso pizzetto,
ai nostri occhi, appariva straordinariamente simpatico.
Con una vecchia motocicletta, veniva ogni giorno da
Matera.
Il buon uomo aveva tutta la voglia di arrivare puntuale
in servizio, ma spesso giungeva con qualche mezz’ora di
ritardo, e forse più: colpa del mezzo, non pienamente
efficiente,ma non solo. Durante l’ultima guerra, come
pilota di aerei, aveva subito una brutta ferita al capo
che gli procurava ancora molte sofferenze e non gli
permetteva il massimo della puntualità. L’entusiasmo per
il lavoro gli dava una tale carica, che riusciva a farsi
perdonare i ritardi e a conquistare la stima e l’affetto
di tutti.
Ci narrava, talvolta, le sue esperienze di vita
militare, per lo più a bordo di aerei traballanti e
rumorosi; di voli notturni o di virate improvvise che
incantavano tutta la classe. Usava un metodo
d’insegnamento davvero impensabile per quei tempi. Ci
divideva in gruppi di apprendimento, in modo che i più
bravi aiutassero i meno capaci. Spesso ci conduceva
nelle botteghe artigiane per farci apprezzare
l’importanza del lavoro.
L’esperienza più bella, per sua iniziativa, si ebbe con
l’allestimento di una recita teatrale che coinvolse non
solo la nostra, ma diverse altre classi. Dopo alcune
settimane di preparazione, anche in orario
extrascolastico, il saggio finale si tenne nei locali
del vecchio cinema, alla presenza di genitori e autorità
cittadine. Mio fratello ed io facemmo parte del coro. Il
ritornello del “Vecchio scarpone”, ancora mi rimbomba
nelle orecchie. Ebbe un tale successo che se ne parlò in
giro per parecchio tempo. Si chiamava Peppino Spera. E’
scomparso pochi anni fa. Il ricordo del maestro Spera è
rimasto per sempre nel cuore dei suoi scolari.
Siamo giunti, intanto, in quinta classe. Con il nostro
terreno, confinava la piccola azienda del Direttore
Didattico, dott. Michele Santarcangelo, originario di
Miglionico, ma residente a Matera. Quell’anno, era il
1953, giunse da Salandra una numerosa famiglia di
mezzadri che si apprestava a prendersi cura dei suoi
terreni. Era composta, oltre che dagli adulti, da
quattro minori in età scolare. Il Direttore si adoperò
subito per far istituire una scuola in uno dei suoi
locali. Si raggiunsero facilmente undici alunni,
sufficienti per formare una pluriclasse. Infatti,
confluirono altri quattro bambini, figli di contadini
che vivevano a pochi chilometri di distanza, sulla
strada per Grottole. Con mio fratello, me stesso e
l’altro vicino si raggiunse, pertanto, il numero
stabilito.
Iniziava un periodo di scolarizzazione che durerà oltre
tre anni. Non perché, con mio fratello, ripetemmo
qualche classe, ma perché non v’erano, allora, le
possibilità economiche per iscriversi alla scuola media
di Matera. Frequentammo, di seguito, la quinta, la sesta
e la settima classe; così si denominavano all’epoca. Per
prima, ebbe l’incarico una giovanissima maestra, di nome
Antonietta Padula. Nei primi tempi alloggiò nella nostra
casa di campagna; in seguito trovò posto in un piccolo
locale adiacente all’aula. Era una ragazza semplice,
amabile, proveniente da un’umile famiglia di contadini
che abitava, come la maggior parte degli agricoltori,
nelle case dei Sassi di Matera.
Al primo anno d’insegnamento, si trovò subito ad
affrontare una pluriclasse che comprendeva alunni dalla
prima alla quinta. L’aula era stata arredata come meglio
si poté. Di forma rettangolare, appena sufficiente a
contenere una decina di vecchi banchi e una consunta
lavagna portati dal paese. Non vi erano altre
suppellettili, oltre a quelle necessarie alla vita della
maestra: un lettino sistemato nello spazio antistante,
una piccola cucina a gas, un armadietto recuperato
chissà dove. L’insegnante, fresca di studi e con una
formazione ancora ispirata alla filosofia gentiliana,
secondo cui “il metodo è il maestro”, doveva inventarsi
le strategie didattiche più estemporanee per seguire una
classe con alunni di età diverse.
Per noi scolari la giornata iniziava ancor prima
dell’inizio delle lezioni. Bisognava alzarsi presto per
fare una ripassata degli argomenti studiati la sera
precedente. Diveniva subito buio, ed era faticoso
studiare con la fioca luce del lume a petrolio. I più
puntuali eravamo noi che abitavamo vicino. Chi veniva da
lontano spesso arrivava con molto ritardo. Date le
oggettive difficoltà, la lezione si riduceva al minimo
indispensabile. I più piccoli, che avevano bisogno di
più attenzione per avviarsi a leggere e scrivere, si
prendevano il maggior tempo.
Dato che ne rimaneva poco, di quello che la maestra
poteva dedicare a ognuno, agli alunni più grandi, una
volta ricevute le consegne, non restava che proseguire
da soli I risultati, però, non furono del tutto
negativi: noi grandi fummo spronati alla conquista di
una maggiore autonomia e a comportarci con più
responsabilità. Nei lunghi intervalli, tra un compito e
l’altro, l’attività prevalente era il “disegno
spontaneo”, in altre parole disegnare ossessivamente
sempre gli stessi soggetti.
Per me significava tratteggiare all’infinito il volto di
Garibaldi o di Mazzini; ricopiare la figura di
Napoleone, raffigurato esultante su un bianco cavallo, o
disegnare un’infinità di altri animali. Iniziai a
leggere “I Promessi Sposi” che la maestra aveva con sé,
ma non riuscii mai a finirlo perché lungo e “noioso”, a
causa delle infinite descrizioni di luoghi e persone.
Tra i pochi libri che riuscii a leggere per intero,
furono “I Segreti di Parigi” e “Il Conte di Montecristo”,
perché avvolti in quell’ quell’aria di mistero che
colpiva la mia fantasia.
Se questa, per noi scolari, era la tipica giornata
scolastica, come si svolgeva il resto del tempo? Da
dedicare ai compiti rimaneva ben poco. Vuoi perché
l’oscurità, d’inverno, giungeva in men che non si dica,
e la tenue illuminazione del lume non consentiva
un’applicazione sufficiente, vuoi perché bisognava
aiutare i genitori nei lavori giornalieri. E’ da
premettere che, per soddisfare le esigenze della
famiglia, bisognava produrre in loco tutto quanto fosse
necessario per alimentarsi. Non c’era disponibilità
sufficiente, né negozi a portata di mano per acquistare
il necessario per vivere. Necessitava produrre tutto con
le nostre mani, dai prodotti vegetali, fino a quelli
animali.
Si cominciava, in settembre, a piantare ogni genere di
verdura: rape, cicorie, cavolfiori, finocchi, patate,
etc. che, dai primi di dicembre, fino a maggio
inoltrato, non cessavano di fornire le loro specialità.
Si faceva moltissimo ricorso anche alle verdure
selvatiche, che abbondavano copiosamente. Si produceva
ogni genere di legumi e di cereali. Non mancavano le
piante dei carciofi, il cui prodotto si prestava a
essere conservato, sott’olio, per un anno intero.
Sott’olio si conservavano anche i lambascioni, che si
raccoglievano facilmente nei terreni incolti.
Nei mesi estivi era d’obbligo la coltivazione di
zucchine, fagiolini, melanzane, peperoni e quant’altro.
Per il bisogno di frutta, non c’era alcun problema. La
saggezza dei contadini non conosceva imprevidenze.
Usavano, diligentemente, dotare gli orti di ogni tipo di
alberi, in modo che fornissero i frutti da maggio a
dicembre: le mele maggioline, le ciliege, i fichi, ogni
specie d’uva, castagne, sorbole; insomma decine di tipi
di frutta, comprese le pere da conservare per i mesi
invernali.
Il bisogno di proteine animali fu gradualmente
soddisfatto in pochi mesi. Si cominciò con l’allevare
qualche coniglio, una decina di galline, un maiale, un
paio di caprette e, infine, una mucca da latte,
acquistata ancora in tenera età. Come si può notare la
famiglia era in grado di provvedere in piena autonomia a
tutte le necessità alimentari. Per le altre spese, il
vestiario, le tasse, l’acquisto di strumenti di lavoro e
molto altro, bisognava alienare gran parte della
produzione di olive, di fichi secchi, di qualche
quintale di mandorle e il grano proveniente da alcuni
ettari di terreno seminativo.
Per produrre tutto questo occorreva, evidentemente,
molta manodopera oltre a quella dei genitori. Era
necessario un aiuto supplementare. Mio fratello ed io
dovemmo ben presto adattarci alla coltura dei campi e
alla vigilanza delle bestie. Non che i nostri genitori
avessero voglia di sottoporci a fatiche estreme, ma era
inevitabile dare un apporto sostanziale alla produzione
dei beni per la famiglia. Tranne qualche lavoro
richiedente personale esperto, come la potatura degli
ulivi, l’innesto delle viti, la macellazione annuale del
maiale, tutto il resto era a carico di tutti i suoi
membri. A noi ragazzi, qualche volta anche da soli,
toccava portare gli animali al pascolo, raccogliere i
vari prodotti, zappare la vigna. Quanto tempo rimaneva
per studiare? Poco o niente.
Al termine dell’anno scolastico iniziava, per me e mio
fratello, un supplemento di lavoro. Allo spuntare
dell’alba si cominciava col badare alle bestie, curare
la vigna, raccogliere i frutti. I miei genitori,
preoccupati di non farci esporre troppo al sole, non
appena i raggi si facevano infuocati, ci facevano
smettere per consumare insieme la colazione, a base di
“cialledda fredda”, al riparo sotto un fresco pergolato,
accompagnati dal canto monotono delle cicale. Mia madre
subito dopo, cominciava a pensare al pranzo. Si
alternavano orecchiette, “capunt’”, patate e zucchine,
melanzane ripiene, carciofi, pasta e legumi, le verdure
più varie, insomma tutto ciò che la terra offriva. Non
mancava mai il piatto delle lumache che nei mesi estivi
abbondavano nei canneti.
Per me e per mio fratello era il periodo più bello. Dopo
qualche ora di sonno, mi rintanavo nell’angolo più
fresco della casa e mi dedicavo alla lettura. Libri per
ragazzi che “rifilavo” a mio nipote, libri in prestito
da amici e conoscenti; l’Intrepido, fumetto che i miei
compravano per noi ogni settimana; tutto quello che
riuscivo a procurarmi con gli stratagemmi più vari:
romanzi di “Sogno”, il Grand’hotel, la settimana
enigmistica.
Nel primo pomeriggio si consumava il pasto e si tornava
al lavoro. Con la temperatura che diveniva sempre più
fresca, era un piacere dedicarvisi. Si smetteva solo
quando lo stridio dei grilli annunciava la fine del
giorno. Si riponevano gli attrezzi, si sistemavano gli
animali e si andava a cena. Si era d’estate e il tempo
passava velocemente. Cascavamo tutti dal sonno e
bisognava andare subito a letto perché l’alba non si
sarebbe fatta attendere.
Erano davvero anni difficili per tutti. Pochissimi si
potevano permettere una vacanza; il mare lo si guardava
solo in cartolina. Di viaggi e gite, neanche a parlarne.
Per molti la vacanza consisteva nel trasferirsi, nel
mese di settembre, in campagna con tutta la famiglia. In
estate la festa più attesa era la sagra della Porticella.
La festa si svolgeva – e si svolge tutt’ora – nella
seconda domenica di settembre, in una chiesetta a pochi
chilometri dal paese. Tutti si recavano sul posto, con i
mezzi più disparati - a piedi, con asini, muli, in
bicicletta, i più abbienti in calessino - per assistere
alla messa e alla processione.
Quest’ultima compiva un lungo giro nell’ampia radura
antistante e terminava col la messa dinanzi alla chiesa.
Per noi ragazzi era un’occasione di grande divertimento.
Aspettavamo quel giorno in trepida attesa. A pranzo si
usavano preparare polli ripieni – a noi ragazzi
toccavano solo teste, ali e piedi - orecchiette al sugo
di pomodoro fresco, e tutto quello che si conservava per
l’occorrenza. La mamma, già dal giorno prima lavava e
stirava le usurate camicie bianche, col ferro a
carbone.. Le scarpe, in mancanza del lucido adatto, si
tingevano con i residui di fumo del camino.
Appena finito il pasto, si partiva con la gioia nel
cuore. Tutto il contado, in un unico drappello, partiva
di gran carriera. Per strada, un tratturo che,
all’occorrenza, il comune provvedeva a far spianare, si
formava una lunga fiumana di gente festosa. Per noi
ragazzi, il divertimento maggiore consisteva in una
scorpacciata di derrate alimentari che abbondavano sulle
bancarelle di venditori improvvisati: noccioline
americane, castagne “del prete”, “gazzose”, lupini e
mandorle tostate. Per un altro giorno di baldoria,
bisognava attendere l’anno successivo.
Apro un’altra parentesi per descrivere un avvenimento
cui avevamo partecipato fin da piccoli: la raccolta del
grano. Per l’occasione tutta la famiglia si trasferiva
in un podere ai confini col territorio di Grottole. Dal
grano provenivano i proventi più cospicui per le
necessità maggiori. Erano gli anni a cavallo tra la
mietitura tradizionale e l’uso delle prime mietitrici.
L’ultimo anno che si mieté a mano, lo ricordo con grande
nostalgia. Gli uomini che formavano la “paranza”, armati
solo di falci affilate, il cappello di paglia calato
sulla nuca, piegati su se stessi, dalla mattina
all’alba, col solo intervallo di mezzogiorno,
procedevano compatti al taglio dei lunghi steli di
grano. Grondanti di sudore, ma veloci nelle bracciate,
gridavano e cantavano per darsi coraggio e vigore.
Noi ragazzi badavamo a porgergli, a brevi intervalli,
l’acqua fresca che attingevamo dal pozzo. Con l’acqua si
offriva del buon vino, tenuto fresco in un barilotto di
legno, “lu iascariedd”, che serviva a lenire la fatica.
A sera, dopo una giornata di fatica, tutti insieme, alla
fioca luce delle lampade a petrolio, sul piazzale
antistante ai locali della masseria, ci si raccoglieva
intorno a tavoli messi su alla meglio e si consumava la
cena, quanto di meglio il “padrone” poteva offrire:
enormi piatti di tagliatelle preparate a mano da mia
madre, fumanti frittate di zucchine appena raccolte,
peperoni e baccalà, fritti in quantità.
Non mancavano salsicce, ventresche, formaggio, pane a
volontà. In cerchio, si prendeva il cibo dagli “spasoni”,
nei quali ognuno si ritagliava l’angolo da cui
attingere. Il vino la faceva da padrone. I racconti di
episodi divertenti allietavano la serata. Noi ragazzi
cascavamo dal sonno ed eravamo i primi a stenderci sui
duri sacchi di paglia. Al mattino ci volevano davvero le
cannonate per svegliarci. I mietitori dormivano nei
posti più impensati, o al chiaro di luna.
Terminata la mietitura, si procedeva ad ammassare i
covoni in un’unica grande bica. Fino all’anno appena
descritto, la battitura delle messi si praticava col
vecchio sistema della “girandola” delle bestie: due muli
maschi avanti, una femmina dietro. Il metodo richiedeva
una sequenza di operazioni consolidate attraverso i
secoli.
Per prima cosa bisognava individuare una zona idonea,
vicino ai caseggiati e molto ventilata. Se ne
circoscriveva una parte, a forma di cerchio, e si
proseguiva col bagnarla e batterla più volte, per
rendere il terreno duro e compatto. L’aia era pronta.
Sparsa nella pista la quantità sufficiente dei fastelli
del grano, vi si facevano entrare le bestie,
opportunamente bendate per evitar loro dei capogiri, e
la girandola cominciava. Al centro mio padre, o chi per
lui, spronava gli animali a girare intorno. All’inizio
si procedeva a rilento, per le difficoltà che
incontravano i muli nel superare gli ostacoli.
Man mano che l’andatura aumentava, era necessario che
chi guidava l’azione, si mettesse a cantare di buona
lena per sostenere il ritmo dei quadrupedi. Qualche
volta mio padre permetteva a noi ragazzi di provare a
condurre la “giostra”, con quanto divertimento e gioia
da parte nostra. L’operazione richiedeva non meno di due
o tre ore, fino a quando gli steli si riducevano in
paglia, e le spighe liberavano tutti i chicchi del
grano.
Seguiva la fase della separazione del frumento dalla
paglia. Con grandi forconi, si sollevavano, controvento,
mucchi di paglia e grano, in modo che la pula volasse
via e il grano ricadesse sul terreno. Si era fortunati
se la giornata riusciva ventosa; altrimenti occorreva un
bel po’ di tempo, prima che si potesse ricominciare con
una nuova pestatura. Il lavoro terminava col
setacciamento e la raccolta del grano in capienti sacchi
di iuta. Tutta l’operazione, in genere, si svolgeva per
tutto il mese di luglio e, secondo le condizioni
atmosferiche, anche oltre. Non appena si diffusero le
nuove macchine, il vecchio sistema fu completamente
abbandonato. Sorsero nuovi imprenditori che, acquistate
le prime trebbiatrici, si misero al servizio degli
agricoltori.
Ahimè, la tecnologia era ancora imperfetta, e la
difficoltà di far giungere i mezzi nei luoghi più
impervi creò non pochi inconvenienti. Un piccolo
incidente si avvenne proprio nel nostro terreno. Una
trebbiatrice, tirata da quattro buoi nerboruti, mentre
si dirigeva verso la nostra masseria, a causa di un
dislivello della carreggiata, si rovesciò su se stessa e
provocò la morte di uno degli animali. Di là delle prime
difficoltà, la meccanica dei mezzi fu presto
perfezionata. Ai buoi subentrarono i trattori, le
trebbiatrici divennero sempre più efficienti e le
moderne mietitrebbie rivoluzionarono completamente i
sistemi di raccolta delle messi.
L’evoluzione della tecnica ha permesso di sottrarre
l’uomo dalla fatica, ma lo stato d’animo e l’atmosfera
di grande socialità che si creava intorno a quegli
eventi, non si ripeteranno più. Era un concorso di
uomini e donne, impegnati nell’impresa di procurare un
alimento vitale per l’uomo, in un clima festoso e
sereno. Gli uomini, coperti di pula che fuoriusciva
dalle macchine, non smettevano di conservare il
buonumore, soddisfatti per il raccolto andato a buon
fine; le donne facevano a gara per cucinare il meglio
delle loro specialità e fornire di continuo acqua
fresca, appena attinta dal pozzo, agli operatori
accaldati.
Nel momento del pranzo e della cena, si rinnovavano le
serene atmosfere che abbiamo visto ripetersi nelle
operazioni della mietitura e trebbiatura tradizionali;
era un susseguirsi di scambi di battute e di avventure
da raccontare. Noi ragazzi non perdevamo una sola parola
di quei racconti. Tra un bicchiere e l’altro, si finiva
a notte inoltrata. I giacigli si ricavavano su
pagliericci improvvisati, o sotto le stelle Per noi
bambini non v’era nulla di meglio per fare esperienze
indimenticabili. Non temevamo di avvicinarci alle
macchine e di inzupparci i capelli di pula. I genitori,
opportunamente, avevano badato a farci rapare a zero. Il
divertimento maggiore era tuffarci nel fienile dove era
raccolta la paglia per alimentare gli animali d’inverno.
Così passavano le estati, fino a quando il terreno fu
ceduto in fitto. A questo punto inizia il secondo anno
di scuola rurale. Il nuovo maestro, il compianto Pino
Mercurio, è anch’egli alla prima esperienza
d’insegnamento. Mio fratello ed io, superati gli esami
di quinta, ci iscriviamo alla sesta classe. Forse per
assicurare un numero sufficiente di alunni, o per chissà
quale motivo, ci fu garantita la validità istituzionale
delle classi successive alla quinta. Nonostante la buona
volontà del maestro, l’esperimento fu alquanto
deludente. Furono anni ripetitivi e noiosi. Non esisteva
alcuna forma di programmazione, né di contenuti, né di
metodi, che giustificassero l’innalzamento degli anni
post-elementari. Tutto si ridusse a ripetere
all’infinito i programmi della quinta.
Il “povero” maestro, a inizio di carriera e con le
difficoltà proprie della pluriclasse, non poté
certamente fare miracoli. Veniva a scuola in bicicletta.
Nei giorni freddi e piovosi, non sempre riusciva a
rispettare l’orario, ma faceva in modo da rimediare ai
ritardi, col fermarsi qualche tempo più del dovuto.
Spesso e volentieri – per la nostra gioia – ci esortava
ad aiutare i più piccoli. Senza saperlo, si applicava la
moderna didattica del “cooperative learning”. Tutto
sommato, l’opera del maestro fu positiva per tutti,
compresi i due alunni di prima classe, tra cui un mio
nipote di Matera, che riuscirono a conseguire risultati
più che sufficienti nella lettura e nella scrittura.
Solo un paio di volte, in tre anni, ci fu la visita del
Direttore. Era un uomo sulla cinquantina, di media
statura e piuttosto robusto; dall’aspetto burbero e
severo, ma di una tale bontà d’animo, da rimanere per
sempre nei nostri ricordi più belli. Si chiamava
Giovanni Agneta. Poiché non possedeva la patente di
guida, veniva da Ferrandina con i mezzi più diversi: una
macchina a noleggio, o accompagnato da parenti o amici.
L’anno successivo ebbe l’incarico il maestro Filippo
Montemurro. Anch’egli in bicicletta. Col cattivo tempo
anche a piedi. Era un maestro molto stimato in paese. I
risultati, date le immutate condizioni della scuola, non
furono molto diversi. Senza programmi ben definiti e col
poco tempo da dedicarci,non poté aggiungere granché alle
nostre conoscenze – mi riferisco agli alunni della
settima classe. Premesso che il rispetto e la stima non
sono mai venuti meno, due ricordi di lui mi affiorano
ancora nella mente. Il primo rivela un atteggiamento di
scetticismo nei confronti della scienza.
Era l’anno del primo lancio sovietico nello spazio, per
preparare il futuro sbarco dell’uomo sulla luna. Forse
per esprimere un’opinione originale, il maestro affermò
con estrema sicurezza: << Loro andranno sulla luna e io
sarò papa >>.Il secondo episodio mi riguarda piuttosto
da vicino e ne sento ancora “fisicamente” le
conseguenze. Dopo aver allestito, per l’avvicinarsi del
Natale, il presepe in un angolo dell’aula, di fronte a
tutta la classe, me ne uscii con un’espressione alquanto
spiritosa: quant’è brutto! Senza rendermi conto della
provenienza e della rapidità del gesto, mi si stampò in
faccia un sonoro ceffone che è rimasto indenne nella
memoria.
Non nutro alcun rancore nei confronti del maestro, però
il segno è rimasto indelebile nella mia mente, forse
perché fu l’unico che ho collezionato in tutta la mia
carriera scolastica. Il buon maestro, costretto dalla
mia provocazione, e dai metodi educativi all’epoca in
vigore, non poté fare a meno di dare un esempio di
“pedagogical correct” agli altri scolari. A suo merito,
però, devo riferire un altro episodio che contribuì a
farmi perdonare il suo gesto.
A me che non ho mai posseduto una bicicletta, permise di
utilizzare la sua durante gli intervalli e alla fine
delle attività scolastiche. Ogni giorno, prima di
scoccare l’orario di chiusura, mi autorizzava a portare
la bicicletta in cima alla rotabile. Io approfittavo per
fare delle corse pazzesche che compensavano la fatica
sopportata per spingerla sopra. Dopo qualche anno il
maestro si traferì a Bari con la famiglia, dove completò
la sua carriera d’insegnante. E’ mancato pochi anni fa.
L’ultimo anno, in pratica l’ottavo, fu utilizzato
esclusivamente per prepararci agli esami di ammissione
alla scuola Media. Ci preparò il maestro Mercurio che
raggiungevamo ogni giorno in paese. Fummo promossi con
ottimi voti, in attesa di frequentare, l’anno
successivo, le scuole medie di Matera. Quale bilancio
trarre da quei “tre anni buttati al vento”? Persi
senz’altro, ma ricchi di tante esperienze positive.
Provammo dal vivo la dura fatica dei campi nel rapporto
edificante con le persone più umili. La mattina a
scuola; al pomeriggio, di compiti a casa nemmeno a
parlarne. Eravamo obbligati e fieri di partecipare alla
coltivazione della terra e alla cura degli animali.
Talvolta aiutavo mio padre ad arare i campi; mio
fratello curava maggiormente le bestie; insieme a mia
madre, entrambi zappavamo la vigna. Tutti si doveva
portare avanti la “baracca”. Se tutto quello che la
terra produceva, bastava a soddisfare i bisogni
alimentari della famiglia, ben altro occorreva per
assicurarle un minimo di vita dignitosa. I prodotti che
eccedevano lo stretto necessario per vivere, bisognava
raccoglierli, curarli e venderli. C’era bisogno di
denaro per acquistare indumenti, strumenti di lavoro,
medicine, pagare i debiti, etc.
Per tutta l’estate, e non solo, si era tutti impegnati
nella raccolta dei frutti. S’iniziava subito, in luglio,
con la raccolta delle mandorle: con delle lunghe verghe,
si battevano i rami in modo che cadessero per terra; si
raccoglievano in sacchi di canapa e portate al riparo. A
sera, seduti in cerchio, liberavamo i gusci legnosi dal
mallo, per esporle, qualche giorno, al sole e farle
asciugare. L’operazione durava dai quindici ai venti
giorni, secondo le annate. Si riusciva a venderne non
più di 4/5 quintali per anno.
Terminata quella delle mandorle, iniziava la raccolta
dei fichi. La più lunga e impegnativa perché si
protraeva per tutto agosto e settembre. Si raccoglievano
man mano che maturavano e asciugavano sulla pianta. Una
volta colti, bisognava spanderli sugli appositi
“cannizzi” e lasciarli essiccare al sole. La parte
migliore si farciva con le mandorle;fatta indorare nel
forno, e venduta. Di quella rimanente, una quota si
vendeva semplicemente essiccata, la più scadente,
indorata nel forno e ceduta ai commercianti con meno
profitto.
Ovviamente, non tutto era dato via; la famiglia se ne
riservava una buona quantità, per la merenda quotidiana.
Per la fatica che richiedeva e per il lungo protrarsi,
la raccolta dei fichi era alquanto uggiosa e laboriosa.
Due mesi, e forse più, di lavoro duro. Finita la
campagna dei fichi, subito un'altra dura fatica si
profilava all’orizzonte: la raccolta delle olive.
S’iniziava col raccogliere quelle che cadevano a terra
spontaneamente. Secondo le condizioni del tempo,
l’operazione andava ripetuta più volte. Non appena se ne
raccoglieva una quantità sufficiente, si provvedeva a
venderle, allo scopo di racimolare qualcosa per
acquistare libri ,quaderni, pennini e astucci, cartelle
di cartone pressato per la scuola.
La raccolta vera e propria iniziava intorno alla metà di
novembre e proseguiva, talvolta, fino ai primi di
gennaio; non perché la quantità fosse esuberante, solo
perché si doveva risparmiare il costo della manodopera
esterna. La frequenza scolastica ovviamente si riduceva
ai soli giorni di cattivo tempo. Del resto non serviva
quasi a niente ripetere all’infinito gli stessi
programmi. Nei giorni pieni di sole era un piacere
salire sugli alberi e sfilare dai rametti il prezioso
frutto. Terminata la sfilatura, si raccoglievano le
olive dalle coperte e si riempivano i sacchi. Così per
giorni. Ci si concedeva una pausa solo a Natale e
Capodanno.
Alla fatica del giorno, per me, andava aggiunto un altro
impegno. Il supplemento di lavoro non mi dispiaceva per
niente, anzi lo accettavo volentieri. Ogni volta che se
ne raccoglieva una quantità sufficiente per un carico di
mulo, bisognava portarla al trappeto per la molitura.
Avevo dodici anni. Ero già capace di scaricare da solo i
sacchi, liberare la bestia dai vari orpelli e sistemarla
nella stalla per la notte. Alla base della mia infinita
disponibilità a sottopormi a una fatica supplementare,
c’era un obiettivo ben preciso: sfruttare l’occasione
per andare, la sera, al cinema. La campagna delle olive
coincideva, quindi, con quella del cinema.
Era tanto grande la mia passione per il cinematografo,
da farmi superare qualsiasi fatica. Fu quello il periodo
dei grandi film popolari: La Corona di ferro, Achtung!
Banditi! Il Terzo uomo, interpretato dal grande Andrea
Checchi. Quelli che, attiravano una gran massa di gente,
erano i capolavori di Raffaello Matarazzo. Cinema dai
risvolti drammatici e commoventi: I figli di nessuno,
Catene, Tormento, L’Angelo bianco. Interpreti
indimenticabili, Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson; tanto
bravi da indurre tutta la platea in lacrime.
Talvolta in paese si fermava per intere settimane una
piccola compagnia di teatro. Per passare una serata in
allegria, la gente accorreva in massa: famiglie al
completo, fidanzatini con genitori al seguito, intere
comitive di giovani. Del resto, non vi erano altre
opportunità ricreative che ci si potevano permettere.
Non erano compagnie di alto livello, e il costo del
biglietto era alla portata di tutti. Pur potendo
permettermi qualche soldo, io non pagavo quasi mai.
Primo perché il padrone del cinema era un parente-zio
acquisito;secondo perché il costo del biglietto me lo
guadagnavo col mio “lavoro”. Prima e durante lo
spettacolo, giravo per la platea a vendere caramelle,
gassose e bustine di ceci arrostiti. Il ricavato andava
tutto alla figlia del proprietario.
Era una festa collettiva. Se lo spettacolo era piaciuto,
tutti andavano via soddisfatti; se era stato deludente,
le imprecazioni si sprecavano: “abbiamo buttato 50 lire;
ma che schifezza hanno fatto venire”. Senza parlare
delle proteste che si levavano dalla platea quando lo
spettacolo non iniziava in tempo o, cosa che spesso
accadeva, si verificava un’interruzione della pellicola.
Tutti a gridare: “Orario! Orario”! E fischi a non
finire. La sala era stata ricavata dal refettorio del
vecchio convento. Non era riscaldata e, per giunta piena
di spifferi; col bel tempo non c’erano problemi; nei
giorni duri dell’inverno, il freddo era insopportabile.
Molti si portavano da casa coperte di lana, vecchi
mantelli e sciarponi pesanti dei nonni.
Che tempi! Quanto entusiasmo per niente e quanta
spensierata baldoria! A fine spettacolo, di corsa a
casa. Davo un’ultima manciata di paglia al mulo e, di
filato, a letto; ero solo. Talvolta, se il film
conteneva qualche scena di paura, mi rintanavo nel fondo
del letto e, per “precauzione, ” recitavo un Padre
Nostro. L’indomani mattina, alla tenue luce dell’alba,
bisognava levarsi e andare. In groppa al mulo, col
berretto calato e la “sciarpetta” ben stretta sul viso;
ma contento. Il futuro era tutto davanti.
Appena in campagna, si riprendeva il lavoro. Nelle
giornate di sole, tutto il vicinato si riempiva di voci
festanti. Le grida si propagavano da un capo all’altro
della contrada per chiamarsi, “sfottersi” e comunicarsi
le notizie più frivole. In un podere vicino, un
simpatico e fervente comunista non smetteva mai di
cantare “Bandiera rossa, la trionferà”. A furia di
sentirla per giorni interi, mi rimbomba ancora oggi
nelle orecchie. Non nascondo che, quelle prime
esperienze hanno non poco influito sulle mie future
scelte politiche.
Spesso, nel nostro podere, si incontravano braccianti e
contadini della zona. Tra le tante discussioni, si
finiva sempre per protestare contro il governo “infame”,
contro i “forchettoni” e gli sfruttatori della classe
operaia. Il motto più diffuso era: “addav’nì Baffon’”.
Qualche anno prima mi era capitato di assistere a un
episodio carico di tensione. Un gruppo di uomini cercò,
nottetempo, riparo nel nostro casolare per sfuggire alla
cattura dei carabinieri. Erano alcuni dei tanti
braccianti che partecipavano all’occupazione dei terreni
demaniali. Erano episodi che si ripetevano di frequente
in tutto il territorio lucano.
Il più grave si consumò a Montescaglioso con l’uccisione
di Giuseppe Novello, nella notte del 14 dicembre 1949.
L’atmosfera di mistero e di oscuri presagi lasciò nel
mio animo una traccia indelebile delle ingiustizie e
delle vessazioni che subiva da sempre il popolo lucano.
Quelle esperienze dolorose e drammatiche hanno non poco
incoraggiato il mio impegno civile in difesa dei più
deboli e per l’emancipazione delle classi sociali più
emarginate.
Col passare degli anni, molto è cambiato da allora. Le
condizioni di vita sono decisamente evolute. La
scolarità si è diffusa a ogni livello; si sono
moltiplicati i mezzi di informazione; sono migliorati
l’alimentazione, l’abbigliamento e le occasioni di
svago. Molti figli di contadini e braccianti sono
divenuti professionisti affermati. Merito di quei
governi che hanno saputo accogliere i bisogni reali del
popolo esasperato., che rivendicava a gran voce il
riscatto dalla povertà. Merito anche della lotta di quei
partiti che avevano come obiettivo prioritario
l’uguaglianza, la giustizia, la democrazia. Merito
soprattutto del popolo intero che, negli anni sessanta,
ha lottato con tutte le sue forze, per rivendicare lo
sfruttamento del metano in val Basento.
Tale sfruttamento ha permesso la costruzione di due
importanti industrie – la Pozzi e l’ANIC – le quali, nei
decenni passati, hanno innescato un volano di progresso
economico e sociale per l’intera Basilicata. Tutto
risolto, dunque? Nient’affatto. Le industrie si sono
chiuse e il progresso si è fermato. Le disuguaglianze si
sono accentuate e le Istituzioni sono diventate
autoreferenti. Il lavoro, per molti, rischia di rimanere
solo una chimera. Che fare? Non è questo il luogo di
affrontare il problema. Una considerazione la voglio
comunque fare. Anche quelle forze politiche nelle quali
abbiamo riposto tutte le nostre speranze, che
promettevano giustizia, uguaglianza, lavoro per tutti,
sembrano cadute nel vortice degli interessi privati.
La lotta per il potere, la corruzione generalizzata,
l’arrendersi ai potenti gli hanno fatto smarrire l’unico
obiettivo da perseguire: il bene del popolo. E’ una
constatazione amara ma, doverosa. Se quei contadini e
braccianti, che versarono il sangue, per strappare i
propri diritti, potessero rendersi conto dello sfasciume
attuale, griderebbero al tradimento. La speranza di una
vita migliore mi dava, allora, la forza e il coraggio di
affrontare i sacrifici che mi si prospettavano davanti .
Avevo una segreta aspirazione: trasferirmi a Torino e
farmi assumere come meccanico alla FIAT. Era il massimo
cui poter aspirare in quelle circostanze.
Terminata la raccolta delle olive, si tornava a scuola;
solo quando non c’era molto da fare. I giorni passavano
col ritmo di sempre. Non vi erano distrazioni alcune;
tranne la lettura dei fumetti e qualche libro procurato
chissà dove, non c’era modo d’informarsi su quanto stava
accadendo nel mondo. L’unico giornale che veniva spedito
a mio padre, era il Bollettino del Coltivatore, che
divoravo in un attimo. Le notizie che giungevano
dall’esterno e che suscitavano qualche curiosità, si
riferivano ai piccoli fatti accaduti in paese o nei
comuni vicini: hanno rubato le pecore dalla tale
masseria; un contadino è caduto dall’albero; a Grottole
un pastore è stato azzannato da un cinghiale, e via di
questo passo.
Nelle sere buie d’inverno qualcosa di bello succedeva.
Si era soliti riunirsi con i vicini nella nostra dimora,
per tenersi un po’ di compagnia accanto al fuoco del
camino. Si parlava di esperienze passate, di problemi da
affrontare,di annate andate male. Ma c’era qualcosa che
incuriosiva e faceva volare la fantasia di noi ragazzi.
Due simpatici “contastorie”, ciascuno a modo suo,
durante le visite, dimostravano tutta la loro perizia
nel raccontare le storie più accattivanti.
Ricordo i nomi. Gerardo Cirella, un vecchietto che
viveva con la moglie in un piccolo podere confinante col
nostro; in una casetta di pochi metri quadrati, ma
sufficiente a ospitare due umilissime persone. Non
avevano altre esigenze che alimentarsi con un tozzo di
pane o una “pignatta” di legumi. L’altro contastorie,
Cosimo il “Leccese”– il cognome mi sfugge - trasferitosi
con la famiglia a Salandra, era approdato,
successivamente, nell’azienda di Santarcangelo, dov’era
ubicata la suola.
Erano poveri, ma sapevano comunicare emozioni. Avevano
appreso le storie, nella loro fanciullezza,da chissà
quali altri “artisti”. Cominciavano col suscitare la
curiosità e l’attenzione avvertendo i presenti di non
farsi prendere dalla paura che la storia poteva
provocare. La frase iniziale, quella con cui iniziano
tutte le storie: c’era una volta. Le espressioni che si
ripetevano in quasi tutti i racconti: in una notte buia
e piena di vento… cammina, cammina… appare una luce
lontana…bussano alla porta, toc, toc. Ognuno terminava
con la solita chiusura: larga la fronte, stretta la
vita, contate la vostra che la mia è finita. Quanta
fantasia e immaginazione affollavano la nostra mente! I
pensieri volavano nei paesi più lontani e misteriosi.
La fonte della “conoscenza” non si limitava, però,
all’ascolto delle favole; spesso i presenti chiedevano a
noi ragazzi di leggere qualche passo della Bibbia,
soprattutto del Nuovo Testamento. Era un’edizione
popolare, illustrata alla maniera dei fumetti,
recuperata chissà come, ma utile a tenere vivo il
sentimento religioso. Durante il giorno, il tempo era
scandito da una vecchia sveglia che non era mai a
portata di mano; il vero susseguirsi delle ore era dato
dai “postali” della SITA che, ad orari regolari,
transitavano sulla rotabile.
Ci si alzava col passaggio del primo che andava verso
Matera; si desinava al suo ritorno; si cenava dopo
l’ultimo transito. Qualcosa cambiò quando mio cognato
regalò una radio a transistor a mio padre. Ben presto
cominciammo a seguire i giornali radio, le previsioni
del tempo, i notiziari regionali. Fino a quando non fu
trasmesso quello della Basilicata, nei primi anni ’60,
ascoltavamo il notiziario pugliese, mandato subito dopo
pranzo. Alla fine andava in onda un noto programma, in
dialetto barese, che divertiva tutta la famiglia.
S’intitolava “La Caravella”. I protagonisti erano
“Colin’ e Mariett’”, due popolari comici che suscitavano
tanta ilarità e simpatia. Un altro appuntamento, molto
atteso, era il Festival di Sanremo. Per tre lunghe
serate, in compagnia di tutto il vicinato, si
ascoltavano, senza perdere una nota, gli acuti del
“Claudio nazionale” e le melodie della “signora della
canzone”, Nilla Pizzi.
Un evento molto vissuto nel mondo contadino, nei tempi a
cavallo tra i due conflitti mondiali, era la ricorrenza
del Carnevale. A sera, contadini e braccianti, dopo la
fatica del giorno, si mascheravano alla meno peggio e
s’incamminavano verso il paese per prendere parte alle
sfilate collettive che duravano fino a notte inoltrata.
Al termine della baldoria, tra canti e balli al suono
della “cupa cupa”, si dava fuoco al pupazzo di
carnevale. In seguito la ricorrenza ha assunto forme di
espressione ispirate al dilagante consumismo, che non
hanno nulla a che vedere con la spontaneità, l’armonia e
la spensieratezza di un tempo
Non posso non accennare all’avvenimento più importante e
diffuso fin quasi ai nostri giorni. Tutti crescevano in
famiglia almeno un maiale, acquistato generalmente alla
fiera di agosto, o di ottobre. Quando l’animale, ben
cibato, raggiungeva il massimo del peso, si chiamavano i
macellai per sopprimerlo. Aspettavamo quel giorno con
trepidazione indicibile. Per noi ragazzi era
l’avvenimento più atteso dell’anno, vuoi perché la cosa
suscitava un’eccitazione unica, vuoi perché finalmente
si cominciava a mangiare qualcosa di buono. Il boccone
più prelibato era il famoso “sanguinaccio”, una sorta di
crema dolciastra che si ricavava dal sangue del maiale
subito dopo avergli fatta la “festa”. Una leccornìa che
durava un bel po’ di giorni.
Il “rito” si svolgeva in questo modo: di buon mattino
arrivava l’esperto armato di coltellacci e seghe;
quattro paia di braccia robuste afferravano la bestia e
la stendevano su un tavolaccio inclinato verso il basso.
Tra le urla disumane e i tentativi di sfuggire alla
presa, il “macellatore”, infilava il coltello nella gola
del malcapitato e lo rigirava, fino a quando non dava
più segni di vita. Il sangue, appena raccolto, era
trattato per non farlo aggrumare. Una volta che il
maiale aveva esalato l’ultimo respiro, si bagnava con
acqua bollente per raschiargli le setole.
Terminata questa prima operazione, l’animale era appeso
a un robusto chiodo e lasciato ad asciugare tutta la
notte. L’indomani tornava il macellaio per sezionarlo in
mille parti. Separava il lardo dalla ventresca, i
prosciutti dalle parti meno pregiate, e così di seguito.
Del maiale non si buttava niente, tutto era – ed è
tuttora - utilizzabile. Allontanatisi gli esperti,
iniziava il lavoro di casa: salare le parti grasse,
tagliuzzare a mano la carne per farne salcicce e
soppressate. Quando tutto era ben sistemato, si passava
a preparare il sanguinaccio.
I lettori penseranno che, finalmente, iniziava un
periodo di scorpacciate per tutta la famiglia. Ahimè,
non era proprio così. Era pur vero che un assaggino
toccava anche a noi di tutto quel ben di Dio, ma la
parte migliore prendeva un'altra direzione. Una discreta
quantità era venduta per racimolare un po’ di denaro; il
resto, tra soppressate e salsicce come da sempre è
accaduto che i migliori prodotti dei cafoni se li son
gustati i “galantuomini” - finiva, non retribuito, sulla
tavola di lor “signori”, con la scusa di aver prestato
qualche piccolo servigio alla famiglia.
La parte del leone la faceva il medico di famiglia. Era
tanto buono che non si pagava mai per le visite
domiciliari. Le migliori soppressate, le salcicce più
curate erano destinate a lui. Non bastavano, però. <<Commà…ho
il desiderio di quelle belle olive nere che sai curare
con tanto amore>>. Pronto il pacco delle olive al
dottore. <<Commà…quel bel galluccio che mi portasti il
mese scorso è tanto piaciuto alla signora>>. Subito due
polli al dottore. I percochi più belli, i fichi secchi
con le mandorle, i grappoli dorati dell’uva
“particolare”, le noci saporite dell’orto, i carciofini
sott’olio, il dottore tutto gustava. Però, ti curava
gratis! A noi ragazzi del “porco” rimanevano solo il
lardo, un po’ di ventresca e le cotiche.
Non ricordo che il bravo dottore sia mai venuto a farci
visita in campagna, in caso di malattia. I rimedi
bisognava procurarceli da soli. Per le ferite da taglio,
si usava un impacco di una varietà di cicoria campestre,
capace di rimarginare la ferita in pochissimi giorni;
per il mal di stomaco, si ricorreva a decotti di malva e
di salvia; per la febbre, camomilla e impacchi di acqua
fredda. La settimana che rimasi a letto per
“l’asiatica”, feci una tale ingestione di camomilla, da
ricordarmela per tutta la vita. Bisognava star bene per
forza, e fare economia su tutto. Le calze, le maglie per
l’inverno le sferruzzava mia madre alla sera; i
fazzoletti per il naso li ricavava dalle camicie
dismesse; i buchi nei pantaloni li chiudeva con le
toppe. Quando bisognava dismettere, necessariamente, un
indumento, aveva cura di recuperare tutti i bottoni.
Perfino il sapone sapeva fare in casa.
Meno male che ogni tanto arrivavano i pacchi
dall’America, pieni di biancheria dismessa dai parenti
lontani. Sogno ancora una cravatta, la prima che ho
usato fino all’età giovanile. D’all’America arrivavano
anche riserve di alimenti – carne in scatola, confezioni
di burro, cioccolato, brodini – che, a merito delle
chiese cattoliche e protestanti, erano distribuite a chi
ne facesse richiesta. Il Piano Marshall mostrava i suoi
effetti migliori. Ho voluto dilungarmi in particolari
perché si potessero toccare quasi con mano le
ristrettezze inenarrabili, che la gran parte del popolo
ha sopportato nel periodo appena descritto.
La mia vita di “scolaro di campagna” volge così al
termine. Rimane da fare un cenno all’ultimo anno del
triennio. Fu utilizzato per preparare l’esame di
ammissione. Come ho di sopra premesso, ci preparò il
maestro Mercurio, con ottimi risultati. Eravamo pronti
per la frequenza della scuola Media di Matera. Si passò
così dall’uso del pennino a “lampone” a quello della
penna stilografica. Le biro non erano ancora in
commercio. Dalla prima media, all’ultimo anno delle
superiori siamo stati a casa di mia sorella, a Matera.
La scuola in campagna proseguì per altri due anni,
tenuta dalle insegnanti Fiorentino prima, e Margherita
Cancro, mia compagna in quarta elementare.
Come anticipato nella premessa, l’esperienza della
scuola rurale l’ho vissuta anche come insegnante.
Terminato il servizio militare, ebbi la nomina in ruolo
in un plesso delle campagne di Rotondella. Era l’anno
1970. Nei territori intorno c’erano altre scuole rurali;
a me toccò quella di S. Laura, situata a circa 6/7
chilometri dal paese. Il locale della scuola, di una
ventina di metri quadri, era stato adattato in una
vecchia stalla. alcuni banchi e una vecchia lavagna, gli
unici sussidi didattici. Era frequentata dai consueti
undici alunni, il minimo per tenere aperta la scuola.
Senza servizi igienici. Per i bisogni urgenti, solo per
le femminucce, si era resa disponibile una famiglia che
abitava al piano di sopra.
Come in tutte le scuole simili, le classi andavano dalla
prima alla quinta. Io ero ai primi anni d’insegnamento e
sentivo il bisogno di acquisire al più presto una buona
pratica didattica. Mi detti subito da fare; fui
fortunato ad avere quasi tutti gli alunni provenienti da
famiglie benestanti ed emancipate, proprietarie di
grandi aziende sparse nei dintorni. I ragazzi erano
tutti motivati e rispondevano positivamente agli stimoli
del maestro. Naturalmente l’attenzione maggiore la
riservavo ai due bambini della classe prima, perché i
più grandi potevano cavarsela anche da soli.
Grazie alla generosità di una famiglia che abitava nei
pressi, mi fu offerta la possibilità di alloggiare
presso la propria tenuta. Per qualche tempo, tornavo a
casa solo alla fine della settimana. Ben presto, però,
il disagio e la noia mi assalirono, e decisi di
viaggiare ogni giorno. Avevo da poco acquistata la prima
Cinquecento. Partivo alle sette di mattina e tornavo a
casa alle tre del pomeriggio. Centoventi chilometri
all’andata, centoventi al ritorno. Per fortuna non mi
annoiavo, perché a me si aggregarono altre due colleghe
che andavo a prendere e riportare a Bernalda.
Devo confessare, però, che quella prima esperienza non
fu proprio esaltante, non per colpa mia, né per i disagi
ch’essa comportava; spesso ero “costretto” ad assentarmi
per non brevi periodi perché sollecitato da qualche
superiore. Bisognava favorire una supplente che aveva un
bisogno estremo di lavorare. Non vuol essere una critica
nei confronti di alcuno, ma la costatazione che, a quel
tempo, la vita richiedeva il ricorso a simili
sotterfugi. In ogni modo l’anno scolastico terminò con
la soddisfazione di alunni e genitori.
Giunti al termine di questo lungo percorso, provo a fare
un bilancio della mia esperienza di vita e di alunno
nella scuola di campagna. Dal punto di vista
dell’apprendimento, fino al termine della classe quinta,
non ho alcun rilievo da fare. Tutto era proseguito con
estrema regolarità e col massimo profitto, per merito di
Insegnanti bravi e capaci. Il triennio successivo, per
le ragioni che ho di sopra esposto, non dette alcun
risultato concreto. Fu solo una perdita di tempo e un
ripetere, fino alla noia, gli stessi argomenti; non per
colpa degli insegnanti, ripeto, ma a causa delle
condizioni nelle quali erano costretti a operare.
Un giudizio più articolato voglio riservarlo alle
esperienze di vita agreste che mio fratello ed io fummo
costretti a fare. Il contatto diretto con la natura e
col mondo animale fu senza dubbio salutare e proficuo.
Nessuna conoscenza astratta avrebbe potuto sostituirsi
alle concrete esperienze sul “campo”. L’apprendimento
del perpetuarsi del ciclo naturale delle piante, della
nascita, della vita e del loro esaurirsi, non solo
aggiungeva nuove e importanti nozioni al nostro bagaglio
culturale, rappresentava, altresì, una preziosa
occasione per imparare ad amare e rispettare i beni che
la natura offriva.
Con quanto interesse abbiamo appreso i modi con cui
l’uomo interagisce con la terra per farsi donare i suoi
tesori! Mio padre, con pazienza e competenza, ci
descriveva i segreti più riposti della natura: il
meraviglioso e avvincente susseguirsi delle stagioni, la
cura che l’uomo deve alle piante, l’alternanza della
produzione del grano con i legumi; il periodo di posa e
raccolto di ogni varietà di verdura. Insomma tutto
quanto i contadini hanno appreso nel volgere dei secoli.
Il contatto con gli animali,che dovevamo nutrire e
allevare, è servito, inoltre, a fornirci ulteriori e
preziosi elementi di conoscenza. Nessun sapere teorico
avrebbe potuto mai sostituire l’esperienza che proveniva
dal “vivere” diretto con loro.
La nascita, la vita e la morte, come per le piante,
erano oggetto di continue scoperte; a cominciare dalla
meravigliosa covata di pulcini che sbucava dalle uova
dopo ventinove giorni di cova; e finire con le modalità
di fecondazione e nascita dei vitelli, dei maiali, delle
caprette, insomma degli animali allevati nel nostro
podere. Avevamo imparato a conoscere i loro malanni e i
modi per curarli. Da qui il sorgere di profondi
sentimenti di rispetto e di amore per l’ambiente e per
le sue creature. Non potrò mai dimenticare il dolore,
fino alle lacrime, che provai quando fummo costretti a
vendere un mulo che da decenni “viveva” con noi: il mulo
che mi “portava” a cinema. Per il colore fulvo del suo
manto, lo chiamavamo Rossino. Era docile, “affettuoso”,
non dava mai segni d’irritazione; si poteva cavalcare
senza il minimo pericolo che potesse sgropparti di
dosso.
L’aver toccato con mano la miseria e le sofferenze
immani che uomini e donne sopportavano per strappare
alla terra il frugale nutrimento, non poteva che
suscitare in me quegli stessi sentimenti di umana
comprensione per le condizioni di lavoro cui è stata, ed
è tuttora sottoposta, la classe operaia. Il lavoro,
dunque, e il rispetto assoluto che nutro per esso, è
stato e sarà sempre in cima ai miei pensieri. Non ho mai
fatto distinzione tra le diverse forme di lavoro. Per me
tutti i lavori hanno piena dignità umana e sociale.
Iddio ha creato il lavoro perché l’uomo potesse
completare la sua opera di creazione del mondo. Per
questo assume per me anche una componente divina.
Le mie esperienze lavorative, oltre a quelle vissute in
proprio, qualche volta si sono svolte in modi differenti
e in luoghi lontani. Durante i primi anni delle scuole
medie, alla chiusura dell’anno scolastico, tornavamo in
campagna. La fatica non ci faceva paura ma, per il
desiderio di fare altre esperienze, di varcare gli
stretti confini del paese, al termine del terzo anno,
convinsi i miei genitori a lasciarmi andare a Vercelli.
Lì avrei potuto lavorare, per tutta l’estate, con mio
cognato ch’era titolare di un’impresa edile. Per ben due
mesi fui preso come garzone e cominciai a guadagnare
qualche soldo. Avevo già una discreta formazione in
matematica e, spesso, mi “sfruttava” come futuro
contabile.
Per le vacanze successive, fino al diploma, scelsi
un'altra strada. Da Vercelli alle rive del lago Maggiore
per cercare lavoro come cameriere. Fui preso come
barista in un ristorante di Arona. L’anno dopo, i
proprietari mi affidarono un incarico di maggior
prestigio: gestire il bar e assegnare le camere di un
piccolo albergo, a poca distanza dalla città. Grande fu
la gioia quando venne a trovarmi, a sorpresa, mio
fratello. Al pomeriggio facemmo un giro per il paese per
visitare i luoghi più belli della città. Passammo una
giornata fantastica.
Indimenticabili furono anche le esperienze che ebbi modo
di fare in quelle estati. Durante la giornata libera,
con i camionisti con i quali avevo stretto amicizia,
spesso raggiungevo la riva svizzera del lago, da Ascona
fino a Locarno. Oltre a conoscere tantissime persone,
l’esperienza più autentica si realizzò col lavoro e la
possibilità di guadagnare un bel po’ di soldi. Non
dimenticherò mai la soddisfazione che provavo quando, di
ritorno a casa, consegnavo tutto il “malloppo” a mia
madre; quel denaro, così orgogliosamente guadagnato,
serviva a coprire interamente il costo dei libri
scolastici.
Qualche considerazione finale. Gli anni vissuti in
quella remota contrada hanno contribuito non poco alla
nostra formazione umana e culturale, ma un rimpianto è
rimasto per sempre nel mio animo: aver sacrificato,
negli anni più belli dell’adolescenza, il bisogno di
rapporti sociali più frequenti con i nostri pari di età.
L’unico compagno di gioco, nei pochi momenti di libertà,
era mio fratello. Erano giochi per modo di dire:
sfidarsi nella corsa, arrampicarsi in cima a un albero,
nascondersi e ritrovarsi. Presto subentrava la noia e si
tornava al lavoro.
Resta però la consolazione di aver vissuto un periodo
della vita in piena serenità, nell’amore e nell’affetto
della famiglia, a contatto straordinario con la natura.
Mai più ho potuto gustare il meraviglioso spettacolo
che, nelle albe estive, offriva lo spuntare del sole. Un
tenue apparire all’orizzonte; poi mano mano il cerchio
di fuoco si ingrandiva per infondere calore a tutte le
creature. Rimaneva la speranza che il tempo avvenire
avrebbe esaudito tutte le nostre aspettative. Si saranno
mai avverate? Domenico Lascaro -
Miglionico 28.03.2015
(d.lascaro@libero.it) |