A
ripercorrere il cammino poetico di Amalia
Marmo da: Vento del Sud (2004) a Le rose di
Pieria (2007) all’ultima fatica Mnemosyne
(2011) si ha subito la netta idea di una
accresciuta pregnanza di significati ed una
grande capacità di utilizzo della lingua,
spaziando da lessemi classici a sintagmi
leopardiani e montaliani. Muove dall’essere
cantore della terra a cantore dell’anima. La
sua terra è essenziale nel canto della prima
raccolta (la poesia Lucania ne è un esempio;
qui la costatazione dei mali che affliggono
la Lucania sono oscurati e superati
dall’immensa umanità della gente) tanto che
Daniele Giancane, nella Prefazione al libro
Vento del Sud, parla di poesia di terra,
riportando la definizione di Gastone
Bacheard, per il quale i poeti si possono
distinguere a seconda dell’elemento
primigenio
presente in loro (acqua, ter-ra, fuoco,
aria).
Il poeta si nutre della propria terra, della
propria appartenenza a un luogo. Si parla di
terracame, di paeso-logia, per dirla con il
giornalista Franco Arminio; una sorta di
scienza dell’appartenenza, che ci portiamo
cucita sulla pelle. «La paesologia», è «una
via di mezzo tra l’etnologia e la poesia
[...] Non è altro che il passare del mio
corpo nel paesaggio e il passare del
paesaggio nel mio corpo», come a voler
significare che noi sia-mo paese ed è là che
nasce la scrittura e la poesia di Amalia.
La sua vena poetica cattura momenti
quotidiani, flash di vita vissuta, che
svaniscono in “cerchi nebulosi”, poiché la
memoria non resite alla forbice ’ del tempo,
che distrugge i ricordi e li di-sperde come
foglie d’autunno. Vi è un senso di
smarri-mento nel poeta poiché il tempo
scorre e la mente non riesce ad annodare il
passato al presente. Non si tratta solo di
memoria dei tempi andati come per Montale,
Leopardi, memoria intesa solamente come
rimembranza, la posizione della Marmo, già
dalla prima raccolta, è mol-to più vicina a
Marcel Proust, ne Alla ricerca del tempo
perduto, che fa rivivere il passato nel
presente fino ad annullare le distanze
temporali in una sorta di tempo circolare.
La memoria dell’infanzia è nella Marmo forza
rasserenatrice, attesa, spensiera-tezza
mentre nel Recanatese il passato, anche se
doloro-so, è piacere e consolazione.
La poesia nasce dal suo animo romantico, da
un’acuta sensibilità che la porta allo scavo
interiore, a quella profonda inquietudine
esistenziale che le impone dubbi e domande
metafisiche. La capacità del suo canto di
registrare momenti della vita altrimenti
perduti è magica quasi divina, per dirla con
Ungaretti, è una «preghiera/gradita all’
Eterno/nell’ inerzia dei tempi. (in Anche le
pietre)». E’ improvvisa illuminazione, che
porta il poeta a scoprire il segreto e
rivelarlo agli altri. La scrittura si
dispiega con ele-gante cantabilità nel
comu-nicare emozioni e con un timbro
personalissimo. Il pessimismo, la malinconia
si convertono in una inquietudine interiore,
in una tensione spirituale che si stempera
in una preghiera che è andatura misteriosa
«nei profili di Dio,/quasi incanto perenne »
(in Richiamo d’eterno). Nella contemplazione
si fonde l’angoscia per la caducità di tutte
le cose, per la precarietà del vivere e si
sviluppa il tema dell’angulus ridet onirico,
memoriale: il tempo dell’infanzia, quando il
tuffarsi «in un cunicolo di vie/tra-boccante
miele,/ » (in Mnemosyne) era il godimento
assoluto.
Una relazione corposa vi è tra il
rigurgitare dei sogni e la dimensione
dell’oggi, che si addensa in metafore, nel
gioco delle rime interne, delle assonanze
che sono l’asse portante dell’espressione
poetica. La parola diviene per la Marmo
specchio del mon-do, verità e utopia che il
poeta dopo tanta mistificazione degli ultimi
anni tende a recuperare, a riconsiderare. Il
poeta diventa una sorta di de-miurgo, che
ricrea la realtà e la fissa come in un bel
quadro. La poetessa sa che porta in tasca
l’universo, sa che amare la poesia significa
morire e rinascere come l’araba fenice e che
è solo la poesia a sconfiggere (foscolianamente)
la morte. Francesca Amendola
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