A
beneficio dei lettori del “Quotidiano della Basilicata”
ho trascritto due brani dello scrittore toscano Mario
Tobino (1910-1991) dedicati, rispettivamente, a
Miglionico e a Matera. Li ho tratti dal libro “Passione
per l'Italia” (prima edizione, 1958; prima
ristampa, 1997). Il capitolo dal quale sono tratti i
brani è intitolato “Nostalgia dell'umile Sud”, e
fu scritto alla metà degli anni '50. I titoli dei due
brani trascritti sono miei, non di Tobino. Mi si
permetta anche, prima di augurarvi una buona lettura,
una “fantasia” storico-sentimentale: i protagonisti di
questi brevi frammenti narrativi potrebbero ancora
essere in vita e dunque riconoscersi in queste
descrizioni. Forse - ma non ne sono certo - sarebbe
bello dar loro un nome e un cognome. Ma dubito che abbia
davvero senso trasformare in carne e ossa i fantasmi
della letteratura. Certo, scoprire il nome e il volto
del bambino del racconto materano di Tobino
emozionerebbe non poco l'umile trascrittore di questo
lontano resoconto.
Le
trattorie immaginarie di Miglionico
[…] Nato
in Toscana, nella mia vita avevo sempre trascurato
l'Italia meridionale.Li ascoltavo,quando mi capitava di
incontrarli, come un accordo profondo, una legge che è
già dentro di noi e c'è sempre tempo a prendervi
visione. I meridionali mi ricordavano scorticanti
partenze familiari, verità della nostra modestia,
mormoravano al mio orecchio una voce che incitava il mio
pudore a rinchiudersi. Arrivato alla anziana età sono
andato a petto sicuro a trovarli. Da circa un'ora doveva
essere suonato a qualche campana mezzogiorno. In quei
minuti che ronzavano nel sole io e la Giovanna avevamo
appena d'un poco oltrepassato un piccolo colle sul quale
poggiavano diverse case a fare un paese, di nome
Miglionico. Titubante non mi volevo fermare, la
Giovanna sì. Continuavo a guidare più lentamente quando
incontrammo due giovanotti. Erano tutti e due sudati;
uno la mano afferrata al sellino per tenere in bilico la
bicicletta, l'altro sopra per imparare ad andarci,
afferrati i piedi e i polpacci agli astrusi pedali.
Tutti e due imporporati ed allegri. Domandammo a quello
più ridente e sudato che imparava la bicicletta e se ne
stava in quel momento scendendo se a quel paese, sulla
collina, c'era la possibilità di mangiare, se c'erano
trattorie o almeno una osteria. Il giovanotto rispose
(non si seppe mai se
con ironia o per far brillare il suo paese) che ce n'era
quante ne volevamo e domandò di salire in automobile che
volentieri ci avrebbe accompagnato tanto più che anche
lui era diretto a Miglionico, dove l'aspettava la
fidanzata. Come fu sopra continuò a ridere con accento
sopra elevato e mi sembrava stesse come su un piede solo
pur continuando a fare il sicuro. Si fece presto a
imboccare la via della collina e si arrivò al paese che
era intricato di stradette delimitate da tettoie accese
dal bianco del latte di calce; subito si avvertì un
sottile odore di strame che, tranquillo e padrone,
chissà da quanti anni respirava tra quelle mura. A un
difficile incrocio il giovane disse di fermare che
avrebbe provveduto. Gli risposi con il mio migliore
garbo che ci indicasse l'osteria e noi l'avremmo prima
portato alla casa della sua fidanzata, da soli poi
saremmo ritornati. Rispose che la fidanzata non era al
paese, era in campagna, quel giorno c'era una festa. Il
giovane era divenuto precipitoso. Scese che le ruote
erano appena ferme. Lo aspettammo. L'aria continuava ad
avere quel tanfo leggero che non si risolveva a sparire
né a farsi più acuto. Il giovane entrò in una di quelle
porte e subito ne uscì con un uomo magro e vivace, dagli
occhi un poco febbricoli. Lo accompagnò da noi, ce lo
presentò e quasi subito il giovane fuggì. Tentai di
richiamarlo, mi ripeté il saluto che già era distante e
continuò ad allontanarsi per quella strada deserta. La
sua figura, che vedevo di spalle, alta quasi quanto le
case, avvolta in quell'odore leggermente acido, aveva
dell'irreale. Il nuovo venuto ci spiegò che quel giovane
non aveva fidanzata, che in paese non esisteva neppure
una trattoria. […].
“Eravamo in Italia” Visita alle grotte di Matera
[…] Facemmo il semicerchio della città e di grotte dove
“gli uomini vivevano come le bestie”non ne vedemmo. E a
una estremità del paese, vedendo uscire un prete da una
porta confinante con la chiesa, mi fermai, scesi, lo
fermai e gliene domandai. Era un prete elegante, svelto
di persona; quando cominciai a interrogarlo stava
montando sopra una bicicletta che un bambino gli aveva
recato. Come avessi toccato a una zitella le ragioni
perché non ha preso marito: “No, esagerazioni! Inutile
che vada a vedere, hanno esagerato, esagerato!”, e
trattava chi aveva descritto quel panorama come uno che
ha voluto accarezzare la retorica per ottenere
l'applauso. Non mancai di ringraziare e rimontando in
macchina dissi alla Giovanna: “Le grotte ci sono”.
Infatti erano vicinissime. Nella collina grigia, tutta
sasso, che era davanti a noi, un po' sulla destra.
Chiedemmo a un altro che guardava da un muretto lo
strapiombo di quella sassosa collina (che da quella
parte continuava a scendere finendo in una grande buca).
Anch'egli ripeté: “Cominciano lì”. C'era un sentiero
incassato nella roccia. Chiudemmo l'automobile a chiave
e procedemmo di pochi passi. Ci fu la prima grotta. Era
abitata da una donna piccola, nana; il marito era un
bell'uomo, alto, che in quel momento era seduto sul
muretto prospiciente e stava vezzeggiando tra le braccia
un poppante. Da principio non avevo capito l'affare del
mulo. Il mulo era fuori della porta attaccato a un
chiodo per la cavezza. Fu la moglie a riceverci. Ci fece
entrare “in casa”; certamente altri poveri curiosi come
noi erano venuti e in questo mostrare aveva perfino una
vaga ambizione. Nel sasso della collina c'era un buco,
questo era la porta; al di là c'era uno scavo; la parete
era mescolata di sassi e terriccio. Dentro questo
spazio, che riceveva la luce dall'unica apertura
dell'ingresso, c'era un letto matrimoniale, una tavola
infissa al muro, quasi una mensola, con pochi oggetti
sopra, e in un angolo due buchi fuligginosi che erano i
fornelli. La prima spiegazione che la donna ci dette
(era tanta la mia sorpresa che in me agivano i
sentimenti e la perspicacia era morta), il primo avviso
della realtà la donna me lo dette avvertendomi che il
fumo, poiché non esisteva la cappa del camino, doveva
uscire dalla porta e quando c'era freddo c'era il
combattimento tra l'aprire il battente che separava
dall'esterno per liberarsi dai miasmi della combustione
e la consapevolezza che poi in quello spazio si sarebbe
sostituita l'altra pena del freddo, che s'insinua anche
nel letto. Capii finalmente la verità quando, notando
oltre la spalliera del letto matrimoniale, “stile
Novecento”, uno spazio vuoto ero per domandare perché
non lo usufruivano e l'avevo appena indicato che la
donna aggiunse: “E' il posto del mulo, d'inverno non
possiamo cambiare l'aria e fa tanto puzzo”. Ora avevo
capito. Il mulo dormiva con loro. Il marito era
bracciante. Non esistono in quei luoghi case di
campagna. Il mulo, affinché il marito potesse sostentare
la famiglia,era necessario quasi quanto lui, per poter
raggiungere la lontana terra dove per fortuna e
preghiere era stato ingaggiato e poterlo trasportare a
casa lungo la lunghissima via, conducendo insieme al
lesinatissimo obolo qualche pezzetto di legno o qualche
altro occasionale soprappiù. Fui costretto a immaginare
quelle due persone con il loro sorridente bambino,
quando, nel colmo della buia notte, il mulo aggiungeva
alla sua bestia il fumo degli escrementi. Non prolungai
la visita, l'ombra della grotta scottava. Eravamo in
Italia. Sul muretto, ancora seduto, il marito parlava
all'infante che gli rispondeva aprendo e chiudendo le
piccole mani. Domandai a lui: “Ma vengono a vedervi?”
“Quelli del governo?”, rispose. “Sì, vengono, ma poi è
sempre lo stesso”. Aveva negli occhi una malinconia
rassegnata e intelligente. Mentre parlava si manteneva
attaccato il suo bambino che continuava a tumultuare.
[…]. Il sentiero delle grotte, incavato nei sassi,
saliva. Ogni pochi metri c'era un buco e, dentro, il
buio ripostiglio di una famiglia. Ci avviammo: ma dopo
pochi passi la vergogna fu così acuta che, per un baleno
guardandoci, ioe la Giovanna, tornammo indietro.
Prendemmo la via di Bari. […]. |