Sicignano degli Alburni 19 agosto 1924 - Matera 25 gennaio 2003) - Bisogna
ricordare Vincenzo Baldoni, prima che il vento e il rumore di altri giorni ci
distraggano dalla sua cara figura.
C’è chi rammenta quando il
bellissimo giovane architetto che discendeva dagli Alburni apparve in una
stagione della materanità innegabilmente portentosa. Allora vi furono cimenti
proporzionati alla sua forza e alla sua tenacia. La dedizione e il rigore
investiti in quei primi esercizi di professionalità lo temprarono come una lama
perfetta per le imprese dei decenni maggiori. Non ci vuole molto a censìre le
opere di un architetto, ma sarebbe bello che quanti le videro crescere ne
raccontassero con la giusta intonazione epica.
Qualcuno deve fissare subito
il profilo biografico di Vincenzo Baldoni: le origini, la formazione, i maestri,
il tirocinio, la maturità, gli affetti, l’ “imago mundi”, la concezione di vita.
Bisogna raccogliere e ordinare le testimonianze concernenti l’attività
dell’architetto: progetti, disegni, plastici, fotografie, testi. Si sa della sua
matita inesausta e di come fosse tempestiva ad assecondare gli impulsi di
un’ispirazione aperta e inappagabile.
Baldoni - con l’asciutto e
monumentale cognome gli piaceva presentarsi - ebbi la ventura d’incontrarlo nei
giorni della sua massima autorevolezza di architetto laureato. Considero una
grazia il fatto che mi onorò della sua attenzione. Ne fruì la piccola chiesa
parrocchiale di sant’Agnese. Egli la strappò alla condizione geometrìle e a
improvvide manomissioni. La innalzò a decenza architettonica, nonostante le
povere risorse che la Parrocchia potette mettere a disposizione di un paio di
muratori.
Come rispondeva puntuale
quando ne invocavo i lumi e la consulenza! Quanto era benevolo e raziocinante
davanti alla timidezza e all’irruenza del prete inesperto che lo tormentava! Era
uomo che ora s’inarcava in complesse disquisizioni ora si concedeva pause di
discernimento. Qualche volta, mentre tesseva il discorso, estraeva dalle tasche
della giacca materiali raccolti qua e là, “trouvaille” che rigirava fra le mani
stupito come un ragazzino e sottoponeva alla curiosità dell’interlocutore. Che
non mancava di guardare dritto negli occhi a controllare se un assenso
intelligente corrispondesse alla sua fatica di concetto.
Avrei molto da riferire sulla
generosità, anzi sulla munificenza di Baldoni. Più di vent’anni fa, di persona
consegnò al Presidente della Caritas italiana per
i bambini del Terzo Mondo la somma notevolissima lasciata in eredità da una
sorella. Ritengo che mai sia uscita dalla Lucania un’offerta tanto consistente
per una microrealizzazione di solidarietà in terra africana. Il dare deciso e
pudìco apparteneva allo stile delle sue mani. Non poche volte ho dovuto frenarlo
e fargli riporre nel portafogli il libretto degli assegni.
Aveva una naturale propensione
a proteggere i più deboli e una sana e sostanziale capacità di dialogo con gli
uomini semplici. Temeva di risultare brutale con la sua franchezza, e che la sua
mite ironia potesse ferire taluno. Se cedeva a un’impennata d’indignazione,
sapeva chiedere scusa senza rimandare all’indomani. Da anni lamentava l’incanaglimento
della politica e dei rapporti sociali.
Baldoni ha assicurato a Matera
un amore riconoscente e fedele. Senza dubbio la cornice della piccola patria
adottiva a un certo punto gli è sembrata angusta, ma egli ha rinunciato a
scuoterla muscolarmente e a farla scricchiolare. Ha amato il suo lavoro e
sofferto per esso. Non è stato condotto da amor di lucro. Ha sopportato con
dignità l’indifferenza degli ignari.
Nei giorni del ritiro e della
stanchezza si è preparato a staccarsi dalla vita con esemplare realismo. Posso
presumere che preventivamente abbia provveduto a tutti gli adempimenti ultimi
con i quali un uomo si rende responsabile sino alla fine della donna e dei figli
che gli sopravvivono. Il dovere della responsabilità nei confronti dei suoi cari
ha costituito la sua resistenza e il suo conforto, nelle ore in cui la lucidità
di un’intelligenza insensibile alle illusioni e all’inganno gli poneva sulle
labbra il verdetto del biblico Qohélet: “Vanitas vanitatum [ … ] tutto è
vanità”. Anni fa, in occasione di un intervento chirurgico, aveva tesaurizzato
l’esperienza del corpo sofferente e braccato sotto cure necessarie ma, insieme,
opprimenti. Ne aveva ricavato una lezione di umiltà. Come un antico greco sapeva
che la hybris non si addice alla finitudine dell’uomo. In occasione delle
esequie ho confidato qualcosa del rapporto che Baldoni intratteneva con Dio.
Nessuno mai dimentichi tale verità. E’ essenziale alla comprensione della sua
biografia. Abbiamo celebrato la sua morte come un “dies natalis”, nella sicura
luce di Cristo. Più volte, privatamente, si era presentato a sant’Agnese a
prendere il viatico per l’ultimo tratto del suo pellegrinaggio.
Mi succede di pensare che
Baldoni stia spiegando a un angelo ignorante il fenomeno della capillarità che
insidia i conci di tufo mal isolati, o a un santo un po’ zuccone la sezione
aurea, e che ora la sua matita sia assoldata dal Committente della Gerusalemme
celeste. Sono le fantasie del sentimento, ma hanno una loro verità. La morte, se
è uno spaesamento assoluto, è più ancora un superamento e un compimento di cui
non siamo in grado di descrivere la bellezza e la perfezione con i nostri
concetti e le nostre fantasie. A Vincenzo Baldoni, dopo l’asprezza e la
lacerazione del morire, Cristo assicuri l’adempimento della promesse alle quali
ha creduto.
Matera, 2 febbraio 2003
|