MATERA.
Diciamo la verità. Sarà per come ce l'hanno
insegnata a scuola, sarà per la scarsa capacità
degli accademici a saperne scrivere in maniera
accattivante (per poi lasciarla vittima dei pasticci
metodologici di certi giornalisti), sarà per
personale avversione, la lettura della storia spesso
ci mal dispone. Austeri, pedanti, irti di cifre,
date e note, i libri di storia. Tuttavia, a non
leggere le pagine di Ettore Cinnella “Carmine
Crocco.Un brigante nella grande storia” (Della
Porta Editori, 2010, 188 pp.), si farebbe gran
peccato. Innanzitutto perché si presenta come una
ricostruzione storica molto ben narrata, con una
scrittura godibile e appassionante, adatta anche a
un pubblico più vasto di quello solitamente
interessato a questo genere di studi. Poi anche
perché l'opera pare un'utile anticipazione a “Il
grande brigantaggio (1861-1865): una ferita nella
storia d'Italia”, di prossima uscita per gli
stessi tipi e sul cui tema proprio Ettore
Cinnella si è diffuso il 19 maggio 2010 per il
ciclo “La parola alla storia. Centocinquant'anni di
vita nazionale”, organizzato a Palazzo Lanfranchi di
Matera, a cura del Liceo Classico “E. Duni”.
Centocinquant'anni che saranno, peraltro,
festeggiati a partire dal prossimo anno, ma che
rischiano proprio in quanto celebrazioni (basti dare
un'occhiata, sia pur fugace, ai siti ufficiali
sponsorizzati dal Consiglio dei Ministri e dal
Ministero per i beni e le attività culturali) di
lasciare in un canto qualche pagina certo meno
rassicurante, ma che parimenti ha inciso nella
formazione dell'Italia unita condizionandone tuttora
un presente apparentemente cambiato di polarità.
Lettura del libro appassionante, si diceva, ma che
nulla cede al rigore dell'impianto metodologico che,
invece, legge a sua volta la documentazione
disponibile e i fatti con il necessario distacco che
il secolo e mezzo trascorso impone agli eventi,
soprattutto inquadrandoli in quella “grande storia”
che impedisce ogni abbandono a localismi di sorta e
a idealizzazioni fuorvianti dei protagonisti. Del
resto Ettore Cinnella fa da decenni il mestiere di
storico in maniera eminente.
Nato a Miglionico nel 1947 è stato allievo della
Scuola Superiore Normale di Pisa, insegnando poi
storia contemporanea e storia dell'Europa orientale
nell'Ateneo pisano. Le sue opere maggiori restano
legate ai temi della rivoluzione russa del 1905 e
del 1917, nel quadro delle quali Cinnella ha, tra
l'altro, rispetto ad altre linee interpretative,
meglio individuato e valutato il peso e il senso
politico delle rivolte contadine. La biografia di
Crocco è dunque il tentativo di far nuova luce,
appena fatta l'unità d'Italia, sulla “prima grande
tragedia nazionale” a causa della quale “lo Stato
unitario nasceva con una ferita che non si sarebbe
rimarginata facilmente”. Una ricostruzione che
Cinnella affronta privilegiando le fonti lasciate da
chi Crocco conobbe direttamente: dalla biografia del
capitano Massa fino agli studi dei lombrosiani (con
qualche correttivo) Penta e Ottolenghi, che lo
definì “il Napoleone dei briganti”. Un'impostazione
critica che, se permette a Cinnella di confermare
complessivamente le radici sociali del fenomeno
brigantaggio “alimentato dalla spaventosa miseria
dei contadini e dall'abisso che divideva 'cafoni' e
'galantuomini'”,permette pure di svecchiarne
l'approccio storiografico rifiutandone, consolidi
argomenti,la visione che da Molfese a Hobsbawm, non
senza passare per Del Carria, ha fatto del grande
brigantaggio “una furiosa guerra di classe ed
embrionale rivoluzione contadina”, e del brigante un
protagonista “animato da un primitivo ma genuino
senso di giustizia sociale” (nel caso di Crocco pure
con qualche responsabilità nell'uso delle fonti da
parte dello storico Pedìo). Dunque, fuor di ogni
leggenda, anche per lo scaltro pastore di Rionero
Carmine Crocco (soprannominato Donatelli), figlio di
un contadino e una cardatrice di lana,nessuna
particolare angheria subita dai
suoi familiari da parte di aristocratici locali. La
carriera di rapinatore e grassatore comincia con la
brusca fine del suo servizio militare nel 1852,
quando si dà alla macchia probabilmente in seguito
al regolamento di conti con un commilitone. Una
carriera che comincia rocambolescamente con arresti,
condanne ed evasioni che dureranno fino alla
fatidica data del 1860. In questo frangente la vita
di Crocco pare prendere, per un momento, una svolta
finalmente positiva seguendo le pieghe della storia
più complessiva della Basilicata. Mentre l'azione
militare dei Mille dissolve il fragile regno di
Francesco II, a seguito del moto risorgimentale che
scuote la regione tra il 16 e dal 18 agosto, per
Carmine Crocco si apre una possibilità di perdono in
cambio dei servigi resi al governo rivoluzionario e
alle truppe garibaldine. È un'illusione di breve
durata. Già il tumulto di Matera contro “l'irrisolta
questione demaniale” presagisce il levarsi della
reazione borbonica a fronte dell'incapacità del
locale notabilato liberale moderato, dopo il
plebiscito, di aprire all'integrazione e all'assenso
delle schiere più diseredate della popolazione. Il
resto lo fanno la frettolosità, il pressappochismo e
l'ottusità della nuova classe dirigente sabauda che
finiscono per ingrossare a dismisura la soldatesca
dei briganti. Infatti, una nuova denuncia, vincendo
le protezioni fino allora godute, spinge nuovamente
alla macchia Crocco (lo seguono De Biase, Stancone e
Ninco Nanco) che in breve si farà forte di un
esercito di almeno mille uomini. Sono vicende,
quelle di Crocco, “talmente straordinarie e
rocambolesche, che non necessitano di ulteriori
fronzoli” mitopoietici. E del resto è proprio qui
che la penna di Cinnella, ricostruendo la
personalità di Crocco il suo genio e le sue
mirabolanti vittorie militari, si fa più
appassionante. Quel che però qui occorre mettere in
rilievo è che lo scoppio dell'insurrezione borbonica
dell'estate del 1861, oltre a connotarsi come una
vera e propria guerra civile fatta di contrapposti
agguati ed esecuzioni sommarie, sempre si sostenne
su un equivoco di fondo (almeno in Basilicata).
Cinnella è chiaro: “Sulla carta la causa borbonica
disponeva di prestigiosi e devoti paladini, i quali
però preferivano ai rischi della guerra la
tranquillità e gli agi della Roma papalina (...) A
scendere in campo e a rischiare la vita (...) furono
per lo più, alcuni aristocratici e ufficiali
stranieri”sovente abbandonati a loro stessi. E non a
caso, il fallimento di quel moto insurrezionale, mal
organizzato e diretto, e l'esecuzione di Don José
Borges (Borjes), fecero cadere la “foglia di
fico”con cui la reazione colorava politicamente le
gesta brigantesche di cui doveva forzatamente
servirsi. Il brigantaggio espresse, dunque, più
autonome forza e ragioni di quanto si sia diposti a
credere. E del resto mai Crocco, causa anche il suo
carattere volitivo e ambizioso, si sarebbe fatto
burattino di una causa di cui molto bene conosceva
gli attori locali: quei galantuomini che dopo averla
sobillata erano “usciti pressocché indenni dalla
tempesta politica da loro scatenata, mentre erano
stati i briganti e i popolani a pagare il fio della
tentata restaurazione borbonica”. D'altro canto
certo sempre convenne allo scaltro capobanda di
ammantarsi della causa borbonica per ottenere
favori, armi e onori, mentre le continue vessazioni
manu militari operate dai nuovi burocrati savoiardi
sul territorio ne accrescevano il favore popolare e
il radicamento. Caduto l'equivoco sulla guerriglia
partigiana e lungi dal rivelare, successivamente, la
sua natura di moto sociale, il brigantaggio resta a
questo punto per quel che fu sempre nella mente dei
suoi protagonisti: “una splendida occasione di
bottino e di fama” cui posero lentamente fine le
stesse truculenze di cui i manipoli briganteschi si
andarono macchiando, la mancanza di strategie
politiche meno che abbozzate, nonché una più attenta
gestione politico-militare del governo sabaudo a
seguito del varo della draconiana e più volte
prorogata legge Pica (agosto 1863). Questa lunga
seconda fase del brigantaggio, apertasi tra la fine
del '61 e il '65, travolge finalmente anche Crocco,
a differenza di molti suoi compagni d'avventura
sfuggito alla morte e arrestato definitivamente nel
1870. Processato e condannato a morte, pena
commutata nei lavori forzati a vita, Crocco si
spegne negli stessi panni del suo esordio: dopo aver
conosciuto la fama di più importante brigante della
storia d'Italia, la ricchezza del bottino, la
vittoria militare, di lui restano all'atto della
morte nel bagno penale di Portoferraio: “Calze di
cotone paia 6; maglie di cotone 1;Maglie di lana 1;
Berretto da notte 2” e la comunicazione agli eredi
che il deceduto “non ha lasciato peculio”. È il 18
giugno 1905. Antonio Celano |